Il periodo della QUARESIMA: un aiuto a vivere la fede

Il testo che segue è la trascrizione di un ritiro di Quaresima tenuto da mons. Luigi Negri per la Fraternità di Comunione e liberazione, il 25 febbraio 2018

Cercheremo di immedesimarci oggi con la liturgia della Quaresima, liturgia alla quale la Chiesa attribuisce grande importanza. Si tratta, infatti, di un cammino importante per la vita della Chiesa, un cammino che consente di aiutare a vivere la fede per quello che è. La fede non è un nostro progetto su noi stessi o sulla realtà; la fede non è l’elenco delle cose buone che uno crede di aver potuto fare nella sua vita o di fare nello svolgimento della vita quotidiana. La fede è la sequela del Signore, un cammino dietro al Signore, per immedesimarsi sempre più profondamente con la sua Presenza. Non sono cose che si fanno, come se noi potessimo fare qualche cosa di buono per Dio; non è il tentativo di ridurre i nostri limiti, perché questo avviene solo come conseguenza della sequela. Vivere la fede significa vivere il cammino dietro al Signore Gesù Cristo. La liturgia quaresimale, in modo estremamente essenziale e molto significativo, richiama i fattori di questo cammino. Lungo tutto il periodo quaresimale è presente un richiamo esplicito, continuamente rinnovato, al nostro cuore e alla nostra coscienza. Il punto di maggiore intensità educativa è offerto dal prefazio, che nella nostra chiesa ambrosiana sintetizza in modo mirabile i fattori di questo cammino, spronando continuamente a riprenderlo.

La Quaresima è una specifica e grande pedagogia affinché accada qualche cosa di nuovo, qualcosa che è già accaduto, ma che deve sempre di nuovo accadere. Che cosa è accaduto? L’incontro. Cristo è diventato incontro per l’uomo. Cristo, che era ed è il Signore dello spazio e del tempo, ha varcato in modo definitivo l’orizzonte dello spazio e del tempo; Egli è diventato un punto di questo spazio e di questo tempo e in questo suo essere punto domina e guida tutta la storia. Questo è l’evento straordinario della fede cattolica: all’inizio non c’è l’uomo che vuole arrivare a Dio, non c’è l’uomo che tenta di sintonizzarsi con il mistero, ma Dio che viene incontro all’uomo, entrando nello spazio della vita di un uomo e aprendo a questa vita lo spazio della sua vita. Nell’incontro con noi Cristo spalanca la nostra vita alla totalità della sua vita e chiede che l’uomo vi corrisponda, cioè corrisponda a questa apertura totale della vita con l’offerta della propria vita. La fede è un incontro accolto e seguito, non sono parole che si capiscono immediatamente; non sono valori dei quali si diventa esperti; non sono atteggiamenti morali che sentiamo consentanei alla nostra vita. È un incontro al quale dobbiamo decidere di corrispondere. Questo è evidente in tutti gli incontri che il Signore ha fatto, diventando uno di noi, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo.

Nei giorni scorsi, predicando gli esercizi alla diocesi di Ventimiglia e Sanremo, mi sono soffermato su questo punto: almeno nei primi cinque o sei secoli, la Chiesa ha tentato di recuperare e di approfondire tutti i fattori del mistero di Cristo, senza scandalizzarsi del fatto che qualche volta si dovesse cominciare come da capo perché nell’impatto tra la coscienza del mistero di Cristo e la realtà, la storia e gli avvenimenti della vita, risultava uno scacco per la fede. La Chiesa dei primi secoli è stata impegnata in una straordinaria capacità di comprensione del mistero di Cristo. La mentalità mondana metteva in crisi la fede, premendo perché la fede accettasse di essere vissuta all’interno della mentalità mondana. In questo cammino, faticoso e tormentato ma di grande significato, in cui è emersa tutta la capacità della Chiesa di penetrare il mistero di Cristo, di approfondirlo e di comunicarlo, a un certo punto, all’interno di un intenso dibattito, i Padri del V Concilio di Costantinopoli dissero che tutto il cristianesimo si sintetizzava in questa affermazione: «uno di noi è uno della Trinità»; uno di noi è un uomo ed è il Figlio di Dio che si è incarnato, il Figlio di Dio che si è reso presente nel mondo; il Figlio di Dio che permane nel mondo e si rivolge alla nostra libertà, sfidandola e chiedendogli di pronunciarsi.

Noi partiamo da questo evento straordinario. La fede è il cammino dell’uomo dietro al suo Signore; è il cammino della persona che segue, con la sua libertà, il Signore. Dunque bisogna ripartire dall’essenziale come la liturgia quaresimale, accanitamente fedele a questo proposito, richiama tutti. L’essenziale è che «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). L’essenziale è che la nostra vita è stata penetrata da una presenza diversa, che ha rivelato, nella sua diversità, una capacità di accoglienza inaudita. Questo mistero di Cristo che si rende presente nella nostra vita, spalancando la sua vita a noi, chiede a noi di spalancare la nostra vita a Lui, e, in questo incontro, la nostra vita viene avviata verso un processo di novità. Questo è l’essenziale: Cristo è presente; ci ha incontrato, ci incontra, e, di fronte a Lui, siamo chiamati sempre di nuovo a dire il nostro sì o il nostro no, assumendoci tutta la responsabilità. E il nostro sì, dice la Chiesa, prelude a una vita vera, a una vita che fa esperienza della novità di Cristo, mentre il nostro rifiuto introduce a una vita sbagliata, negativa, che la Chiesa, senza pretendere di giudicare la persona, non può non considerare come una vita senza senso. Dunque la Quaresima è il cammino verso la Pasqua, un cammino a comprendere e a vivere sempre più l’essenziale: Cristo è presente e deve essere riconosciuto come il tutto. Occorre seguirlo, secondo la preoccupazione esplicitata dalla liturgia quaresimale, perché la totalità della presenza di Cristo investa la nostra vita; perché la totalità di Cristo investa la nostra esistenza secondo tutte le sue dimensioni e tutti i suoi aspetti: il mangiare, il bere, il vegliare e il dormire, il vivere e il morire dice il Vangelo, cioè le dimensioni dell’esistenza nella sua concretezza e storicità. La totalità di Dio, che è Cristo, vuole diventare la totalità della nostra vita.

Attenzione allora a questo passaggio prezioso e profondo della liturgia quaresimale: quando facciamo esperienza dei nostri limiti, riconoscendo il mancato rispetto alla legge di Dio, non è sufficiente far qualcosa per cercare di cambiare. Infatti, il nostro limite più grande non consiste nel fatto che sbagliamo di fronte alla legge di Dio; la radice di tutti i mali consiste piuttosto nel fatto che non consentiamo alla totalità di Dio di diventare la totalità della nostra vita; non consentiamo che la totalità della presenza di Cristo investa e si distenda nella nostra esistenza, invadendone tutti gli aspetti. Noi dobbiamo fare soltanto una cosa: consentire che il Signore occupi interamente la nostra esistenza; non dobbiamo difendere nessun pezzo della nostra esistenza, nessun particolare come se avesse valore indipendentemente da Cristo; non dobbiamo difendere un aspetto della nostra vita, quale che sia, come se avesse valore indipendentemente da Cristo, perché ciò che ha valore indipendentemente da Cristo nega Cristo e quindi nega la nostra vita. «Io sono il Signore Dio tuo non avrai altri dei di fronte a me» (Es 20 2,3). La radice della legge nuova di Cristo raccoglie questa antica intuizione veterotestamentaria e la rende vita, la rende esperienza. «Io sono il Signore Dio tuo non avrai altri dei di fronte a me» significa che non puoi fidarti della politica più che di Cristo; non puoi fidarti della tranquillità del tuo complesso psicoaffettivo più che di Cristo; non puoi perseguire come obiettivo della vita la carriera, secondo un criterio mondano, indipendentemente da Cristo.

Tutta la legge consiste nell’amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente e amare il prossimo come se stessi. Non si fa per Dio, si è di fronte a Cristo, cioè siamo chiamati a riconoscere, concretamente e quotidianamente, che la sua presenza è tutto. Siamo chiamati a lasciare spazio a questa sua totalità senza difendere nulla, senza lasciare nessun brano della nostra esistenza che non sia travolto e occupato da Lui. Questa è la moralità cristiana; non cercare di cambiare il mondo, non andare in giro per il mondo a creare chissà quali progetti, magari in nome di Cristo. La grandezza della vita umana consiste nell’affidarsi a Lui perché la sua totalità investa il nostro essere secondo tutte le sue dimensioni. «Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me» (Mt 10,37); e potremmo continuare: chi ama gli amici, chi ama le responsabilità sociali, chi ama coloro con cui condivide l’esistenza personale e sociale più del Signore, non è degno del Signore. Dire ciò non significa che tutti questi aspetti siano poco importanti, vuol dire che non sono la radice della vita. Il padre, la madre, i fratelli, le sorelle, gli impegni della vita quotidiana non sono da negare, non sono sbagliati, ma è sbagliato idolatrarli. Per questo l’idolatria è la vera alternativa alla fede e i grandi giganti dell’antico testamento, la cui grandezza è fluita ininterrottamente nella vita della Chiesa, sono coloro che hanno combattuto ogni forma di idolatria. Una responsabilità dell’autorità costituita della Chiesa, a qualsiasi livello, è proprio quella di negare che esista qualcosa di più importante di Cristo. Sin dall’inizio la Chiesa si è trovata di fronte alla più grande minaccia che incombe sulla vita della Chiesa da 2000 anni, ovvero che il potere umano, singolo o associato, sia considerato come Dio. L’inerme vescovo di Milano, inerme e giovanissimo vescovo di Milano, non ha esitato, come rappresentato da tanta iconografia sacra, a sbarrare la strada, sulla porta della basilica di Milano, al cristianissimo imperatore Teodosio, ricordandogli quanto sembrava dimenticare, nonostante concepisse come base del suo potere l’appartenenza alla Chiesa e come obiettivo del suo potere difendere la libertà della Chiesa: «Tu sei una cosa grandissima, o imperatore, ma sotto il cielo, e noi vescovi difendiamo i diritti di Dio».

Non c’è niente di più importante di riprendere quanto è accaduto all’inizio della nostra vita cristiana: non esiste possibilità di sviluppo della vita cristiana senza che vi sia l’apertura dell’intelligenza e del cuore perché la sua potenza investa tutti gli aspetti della nostra esistenza e li cambi. Così la presenza di Cristo, accolta da noi, genera la novità. Che cos’è la novità della vita? Nella sua definizione ultima la Chiesa ci dice che la novità della vita è il nostro essere in Cristo. La novità della vita si documenta nella vita cristiana con veri e propri miracoli, che continuano anche oggi all’interno della filiera ininterrotta che è la vita della Chiesa; ma la novità non consiste nel fatto che noi diventiamo capaci di miracoli; la novità consiste nel fatto che noi siamo una cosa sola in Cristo. Per diventare una creatura nuova in Cristo, occorre accettare di seguire il Signore e chiedere al Signore che la sua potenza investa tutta la nostra vita e la cambi.

La liturgia quaresimale è molto attenta a spiegare i termini di questo chiedere al Signore che la totalità della sua vita diventi la totalità della mia vita. Essa chiarisce che cosa voglia dire seguire, che cosa significhi mettersi in contatto con l’essenziale, cioè ripartire continuamente da Cristo, riconoscendolo continuamente presente, senza ridurlo a quello che si sente, senza ridurlo a quello che si capisce, senza tentare di inserirlo in un progetto religioso universale in cui ci sia posto anche per la Chiesa Cattolica che non si concepisce più come particolare e insieme universale – Una, Santa, Cattolica ed Apostolica –, ma che accetta di essere una parte all’interno dello scenario religioso generale, una forma della tradizione religiosa universale. (…) Il rischio grande è quello di finire di portare dentro la nostra vita cristiana il sapore del mondo, appiattendo la fede cristiana al desiderio di religiosità dell’uomo. Ma io della religiosità dell’uomo non mi interesserei, se non avessi incontrato Cristo; io mi preoccupo del mondo perché ho incontrato Cristo. Non esiste una problematica umana e storica che abbia valore in sé. Vale la pena di sacrificarsi per gli uomini ma in nome di Cristo e per Cristo. Qualsiasi versione filantropica, qualsiasi versione caritativa del cristianesimo ne costituisce un’insopportabile decurtazione.

Seguire il Signore, perché la sua potenza investa la nostra esistenza e cambi la nostra esistenza, questo è il punto centrale. In questo senso la fede è un cammino: un movimento della vita; un movimento dell’intelligenza e del cuore. La fede significa riconoscere uno che rivela me a me stesso. Tuttavia, perché questa cosa possa accadere e continuare ad accadere, io devo immedesimarmi con Lui, secondo il grande insegnamento che San Giovanni Paolo II ha lanciato come una sfida nella vita della Chiesa. La fede è un cammino di immedesimazione. La liturgia quaresimale ci chiede di rinnovare ogni giorno il cammino che ci fa immedesimare con Lui. Il numero 10 della Redemptor hominis è un brano epocale. L’uomo che vuol comprendere sé stesso fino in fondo cosa deve fare? Per che cosa l’uomo è al mondo, se non per capire chi è e per vivere secondo questa verità? È al mondo per girare il mondo o per tentare di realizzare una giustizia umana che inevitabilmente diventa, come è accaduto, causa di tragedie inenarrabili? Può sfuggirci questo risvolto tragico perché, in questa terribile congiura contro l’uomo, che è sempre congiura contro la storia, ci hanno fatto dimenticare le cose terribili che certamente non possono dire dipendano dalla Chiesa. Le tragedie delle Guerre mondiali e dei regimi totalitari certamente non sono imputabili alla Chiesa, che al contrario, per quel che ha potuto, ha vivamente contestato. «L’uomo che vuol comprendere sé stesso fino in fondo – non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere – deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. (Redemptor hominis). Questa è la fede: entrare in Cristo con tutta la mia vita, per imparare ad essere come Lui, a vivere come Lui e impostare i rapporti come Lui. L’uomo «deve, per così dire, entrare in Lui con tutto se stesso, deve “appropriarsi” ed assimilare tutta la realtà dell’Incarnazione e della Redenzione per ritrovare se stesso» (Redemptor hominis). La fede ci spalanca, facendoci assimilare a Lui, alla vita nuova. E, quando uno fa l’esperienza di questa sequela, qui non posso non accennarlo, si stupisce: lo stupore che la vita cambia, lo stupore del cambiamento, lo stupore di una nuova bontà che lentamente, quasi salendo dalle radici ultime della nostra vita, pervade l’esistenza. «In realtà, quel profondo stupore riguardo al valore ed alla dignità dell’uomo si chiama Vangelo, cioè la Buona Novella. Si chiama anche Cristianesimo» (Redemptor hominis).

Qual è il contenuto fondamentale del Vangelo? Che l’uomo è salvato solo da Cristo. Questo stupore è la ragione della missione. Perché la Chiesa si occupa dell’uomo e perché la Chiesa si occupa delle persone umane e dei loro problemi? Perché la Chiesa non può tacere di fronte alle vicende drammatiche dell’esistenza sociale? Perché la Chiesa non può tacere di fronte alle gravi ingiustizie perpetrate contro l’uomo, nei modi più diversi, anche i più surrettizi? La Chiesa non può tacere e non può non cercare di incontrare l’uomo di oggi, nelle circostanze più importanti della sua vita personale e sociale. Perché la Chiesa non deve rimanere in silenzio di fronte alle elezioni politiche? Può farlo, può non dire niente, ma non può teorizzare questo silenzio e, nel momento in cui si nasconde dietro questo silenzio, la Chiesa tradisce il suo compito. E, infatti, anche gli uomini di Chiesa che non dicono, tranne alcuni più scriteriati, non possono giustificare questo silenzio e nella misura in cui tentano di giustificarsi appare tutta la loro meschina soggezione alla mentalità di questo mondo.

L’assimilazione a Cristo, che diventa esperienza quanto più noi seguiamo, quanto più lo riconosciamo presente, dicevo ai preti e ai Vescovi durante il ritiro dei giorni scorsi, nella Chiesa dei primi tempi, non poteva contare sulle preghiere che sono state definite nel corso dei secoli. Non crediate che la comunità cristiana avesse avuto, prima della metà del secondo secolo, l’Ave Maria come la diciamo oggi. Non è questa la storia. La Chiesa ha faticosamente tradotto in termini oggettivi un sentire, un pregare del popolo. Tuttavia, prima di una formulazione piena della liturgia, l’unica forma di preghiera, sulla quale la Chiesa ha giocato la sua autorevolezza, era Maranathà, “Vieni Signore Gesù”. Di fronte a questo Dio che è diventato in Cristo un uomo, che io cerco di seguire, immedesimandomi con Lui, in modo che la sua vita diventi mia e la sua potenza investa la mia vita, cosa devo dire? Qual è l’affermazione più ragionevole? Non certo affermare di avere capito quello che il Signore ha detto. I primi, alla fine di una convivenza con Lui, ormai abbastanza lunga, dovevano riconoscere che non avevano capito niente e, quando discutevano di quello che non avevano capito, l’unica cosa che emergeva era quanto fossero preoccupati di salvare il loro ruolo. Discutevano su chi fosse il primo. Forse non è cambiato molto nella vita della Chiesa da questo punto di vista.

Il desiderio è che questa vita nuova, che ci investe, che riempie la nostra vita di stupore, ci faccia camminare e muovere per comunicare questo stupore. Non c’è mai stata una definizione di missione come quella che San Giovanni Paolo II ha formulato nella Redemptor hominis: la missione è la comunicazione dello stupore perché, comunicandolo agli altri, questo stupore possa attecchire nella loro vita e attraverso loro investire il mondo. Questo è il cammino della fede e la liturgia quaresimale dice di stare ben attenti che è questo il cammino perché non ce n’è un altro. C’è una dimensione essenziale e c’è uno sviluppo: l’essenziale è riconoscere Cristo ed assimilarlo e c’è l’esito, cioè il cambiamento della mia vita operato dal Signore. La percezione dei nostri limiti, come la percezione dei nostri dolori sono un dato, com’è un dato il nostro temperamento più o meno felice. Tutto è dato, ma niente è valore. C’è un solo valore nella vita e nella storia: Cristo presente e la fede in Lui. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e il resto vi vien dato in sovrappiù, diceva la tradizione. Cercare il Regno di Dio vuol dire quello che ho detto fino adesso: partire dall’essenziale di Cristo presente, cercare di assimilarsi e di immedesimarsi con Lui. Quanto più ci si immedesima, tanto più si diventa se stessi e, se si diventa se stessi, accade una novità: accade qualcosa che non è accaduto fino ad allora ma che era comunque il desiderio del nostro cuore. Ecco allora che nasce uno stupore straordinario e si incomincia a vivere per comunicare questo stupore. La missione della Chiesa è la comunicazione di questo stupore.

Esiste un termine la cui presenza o la cui assenza dice la presenza o l’assenza della fede nella Chiesa. Questo termine accompagna il cammino cristiano nella sequela e immedesimazione del Signore. Il termine non è la capacità o l’incapacità, non è il risultato, non è l’intelligenza con cui leggere il mondo. Il termine che segna la novità di vita scaturita dalla sequela è la letizia. La letizia è il fremito della vita per la presenza di un Altro, è il movimento della vita per la presenza di un Altro, è la pienezza del sentimento per la presenza di un Altro. Io sono lieto perché Dio vive. Noi contrabbandiamo la letizia con la soddisfazione dei nostri desideri, la corrispondenza con le nostre capacità, con l’esito dei nostri successi mondani. Nei volumi di don Giussani sulla Chiesa è scritto con una grande chiarezza in che cosa gli uomini hanno posto la loro fiducia da quando non l’hanno più riposta in Cristo e nella Chiesa. Essi l’hanno riposta nell’esito delle proprie azioni, pensando che l’esito fosse frutto della capacità, mentre il più delle volte esso è frutto delle circostanze attese o disattese. Non c’è niente di più parziale ed equivoco della parola successo. Il successo è ciò che si ottiene ed è ben diverso dal merito come ha detto il Concilio di Trento, in cui si è precisato che la Chiesa non fa vivere ai suoi figli il successo ma il merito, perché seguendo Cristo e amandolo meritano la vita nuova che è tutta frutto di Dio e insieme frutto della libertà. Non bisogna dimenticare che in questo cammino, su cui la liturgia quaresimale insiste, l’inevitabile si chiama libertà. Dio fa i conti con la mia libertà, Dio si misura con la mia libertà, e in qualche modo si può dire che dipenda dalla mia libertà. Questa è una valorizzazione assoluta dell’esperienza umana tanto che, se c’è un fattore significativo della novità che Cristo ha portato nel mondo, esso è proprio la valorizzazione della libertà.

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A partire da questa delineazione del cammino quaresimale, dall’essenziale verso la pienezza dell’essenziale in me, ovvero la vita che viene investita e cambiata dalla sua potenza, è ora possibile provare a trarre qualche conseguenza di giudizio e di comportamento, in merito alle circostanze particolari che siamo chiamati a vivere. (…)

Io credo di aver sempre detto ai miei fedeli parole chiare sugli aspetti sostanziali della vita personale e sociale. Con tutta la fatica, con tutta la contestazione che può esserci stata, credo che questo sia stato preferito al silenzio che lascia il popolo cristiano nella confusione. Il grande cardinale Carlo Caffarra diceva, verso la fine tormentata dei suoi giorni, che solo un cieco può negare che nella Chiesa esista una grande confusione, incertezza, insicurezza. Non dobbiamo dialogare delle difficoltà della vita della Chiesa come se fossimo al bar, perché la Chiesa non è un oggetto da bar e, se qualcuno l’ha resa oggetto da bar, si è assunto una bella responsabilità di fronte a Dio e alla storia. Noi dobbiamo amare la Chiesa più di noi stessi e amando la Chiesa più di noi stessi dobbiamo fare tutto quello che serve perché essa possa, come diceva Sant’Ambrogio, rilucere di luce sempre nuova, senza macchia e senza rughe. Perché possa essere un volto splendente senza macchia e senza rughe. Noi desideriamo che la Chiesa sia vera e viva. Noi desideriamo che la Chiesa ci accompagni lungo il cammino della nostra vita sostenendoci con interventi puntuali e chiari. Noi desideriamo che, nel dialogo fra chi guida la Chiesa a tutti i livelli e il popolo cristiano, si stabilisca un dialogo fruttuoso come dice il Concilio Ecumenico Vaticano II, sempre citato per alcune cose, mai citato per altre. Noi desideriamo che questa comunità ecclesiale sia una comunità che venga aiutata a vivere la propria fede.

Tuttavia, la vita della fede non è senza giudizio perché una delle espressioni più significative della vita umana è la capacità di giudicare e correlatamente a questa la capacità di amare e la capacità di mettere la vita al servizio del tutto di Cristo, nel tutto della Chiesa, per il tutto del mondo. Noi sappiamo da dove partiamo e sappiamo dove il Signore ci sospinge, se abbiamo l’umiltà di immedesimarci giorno dopo giorno in Lui, perché immedesimandoci in Lui possiamo ritrovare noi stessi. Non c’è altra strada. Chi dice che c’è un’altra strada, diceva San Paolo, è un demonio. Oggi viviamo in una situazione di tale confusione che viene richiesta a ciascuno di noi la capacità di seguire e la capacità di attuare nella vita quello che ci è stato insegnato.


L’immagine in evidenza è La tentazione di Cristo di Lorenzo Ghiberti, Portale nord del Battistero di San Giovanni, Firenze

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