Don Giussani: l’incontro al Berchet e il Movimento di Comunione e Liberazione

Le risposte di don Luigi Negri ad alcune domande sulle origini del Movimento di Comunione e Liberazione
(trascrizione dell’intervento tenuto in occasione dei cinquant’anni di Comunione e Liberazione – Alessandria, 2 ottobre 2004)

Come furono gli inizi del Movimento al liceo Berchet?

Io penso che la fatica più grossa per me sia quella di riproporre l’evento così come si è posto, senza mediazioni, senza quello che poi si può essere accumulato di discorsi, di parole e, magari, si è accumulato anche in voi.

Se devo dire di schianto la mia esperienza dei primi giorni e dell’incontro con l’insegnamento di don don Giussani, con la sua presenza di insegnante, con la sua capacità di provocarci con una proposta culturale nuova che non conoscevamo, direi così: una proposta culturale nuova che riguardava contemporaneamente le grandi questioni umane e la questione della fede. Anzi il nesso fra la questione umana e la questione della fede. La fede come qualcosa di significativo e di interessante.

La nostra non era ancora una generazione di atei e miscredenti come quelle che sono venute dopo; la nostra generazione non aveva ancora rotto con la tradizione ma certamente faceva fatica a capire questa tradizione. Allora la forza della proposta di don Giussani era presentare la fede come una risposta. Ma per capire la risposta bisogna accorgersi della domanda e la domanda non è una domanda astratta, ma la domanda di verità, di bellezza, di bene, di giustizia.

Ecco io, mentre seguivo le lezioni – non sono andato in GS subito – capivo che c’era una novità in questo insegnamento che, come dire, aveva bisogno di un luogo in cui diventare amicizia. Allora, se io penso a quei giorni, a quei mesi, dico che l’esperienza del Movimento per me è stata una grande amicizia che ha rotto la solitudine in cui un uomo inevitabilmente si chiude, sebbene tenti di uscirne con le sue reazioni. Ma un uomo normalmente è solo, vive solo. Una grande amicizia – questa è la cosa più importante, ci ripenso dopo quasi cinquant’anni –, un’amicizia sulla quale non scaricavo la responsabilità della mia vita, anzi mi aiutava a prendere sul serio la mia vita.

Giussani ha puntato sulla libertà della persona, ha sfidato la libertà di ciascuno. Cosa vuol dire?

Io allora la intesi così. Questa compagnia che era fatta di lui che insegnava, che era fatta dei miei amici che mi invitavano ad andare al raggio una volta alla settimana, che mi invitavano ad andare in caritativa, che mi invitavano alle gite, alle vacanze, questa amicizia non era una cosa su cui io scaricavo la mia vita, come tante volte succede adesso tra gli amici, magari anche tra gli amici del Movimento; al contrario mi aiutava a centrare la vita, a centrare la questione fondamentale della vita: “perché vivevo?”; “Che senso aveva il mio vivere?”. Se ha senso il vivere, ha senso andare a scuola, ha senso il rapporto con i genitori, ha senso il tempo, lo spazio, gli incontri che si fanno.

La compagnia, da un lato, ti diceva guarda che “la questione sei tu”, dall’altro, offriva a questa domanda una proposta reale, esistenziale. Non c’era solo la domanda, non veniva richiamata e suscitata in noi solo la domanda. La proposta passava attraverso i particolari: non era astratta – penso all’importanza che ha avuto per me andare in caritativa durante gli anni del liceo e buona parte di quelli dell’Università –, non era un discorso; era un discorso che diventava iniziativa, gesto. Ecco, mi responsabilizzava: a scuola ci andavo io; la compagnia mi aiutava ad andare a scuola. La compagnia mi ha aiutato, ad esempio, a sentire il disagio di fronte a un certo modo di impostare l’insegnamento; mi ha fatto capire che non poteva essere vera l’immagine di Chiesa che davano certi insegnanti di storia e di filosofia.

Io e i miei amici eravamo, da questa compagnia, richiamati ad essere una presenza nuova dentro l’ambiente. Nuova perché eravamo insieme e, quindi, la prima novità era la compagnia e il primo modo di dire la novità era fare nascere la compagnia; ma una compagnia carica degli interessi della nostra vita. La compagnia esisteva come realtà ma si caricava dei contenuti della nostra vita: c’era un nesso tra la compagnia e la discussione su Galileo; c’era un nesso tra la compagnia e l’andare in caritativa. Non so se mi spiego. È stata un’esperienza di libertà. Ma la libertà non è fare quello che si vuole. La libertà è una responsabilità positiva verso la mia vita. Paradossalmente i miei amici mi hanno aiutato a essere responsabile della mia vita.

Questo è il paradosso degli inizi. Ma se questo paradosso non si rinnova man mano che si cresce, invece del Movimento c’è un’organizzazione. Il Movimento c’è solamente quando io sono continuamente chiamato in causa con la mia libertà positiva di essere, di agire, di fare, anche di sbagliare.

Luigi Negri con don Giussani nel 1963, durante un incontro della commissione cultura nella sede di Gs di via Statuto a Milano (Foto Archivio Fraternità di CL)

Che cosa voleva dire la parola presenza?

Per noi voleva dire che non si poteva essere diversi, cioè dimenticare quello che avevamo incontrato nel concreto della vita. Non era uno sforzo, non è che dicevamo: “dobbiamo far convertire cento del Berchet in tre mesi”. Noi eravamo dentro al Berchet e, come dice la Sacra Scrittura, mangiavamo, bevevamo, dormivamo, non più per noi stessi ma per Cristo. La presenza è la vita, è la vita vissuta con una ragione diversa da quella naturale. La ragione naturale non è sbagliata: che uno viva per realizzare i suoi progetti, che uno viva l’affetto con la moglie o con il marito per realizzare un certo livello di unità a cui la natura tende, avendoci la natura fatto uomo e donna, come dice la Genesi, non è sbagliato. La natura non è sbagliata ma c’è un’altra ragione: uno che incontra l’avvenimento di Cristo nel mistero della Chiesa ha una ragione radicale. Perché ha una ragione radicale? Perché è la risposta alla sua vita. È una ragione radicale perché Cristo è il Figlio di Dio, ma Cristo dimostra di essere il Figlio di Dio perché ti fa vivere da uomo, «redentore dell’uomo», come ci ha ricordato papa Giovanni Paolo II venticinque anni fa.

Ecco, io credo che noi siamo stati questo nella vita quotidiana, al liceo come all’università e in tutte le altre circostanze. Io credo che chi si è sposato, non si sia sposato semplicemente perché gli piaceva sua moglie perché la garanzia non era che gli sarebbe piaciuta sempre, e non so neanche se questo sia davvero possibile; ma si è sposato perché in quell’unità vedeva una vocazione a vivere il rapporto con Cristo nella Chiesa, perché l’affetto non è la ragione dell’unità familiare, è l’origine, è la circostanza. Io credo che la missione sia la vita vissuta in una compagnia che rinnova continuamente la memoria di Cristo e spinge ad andare verso il mondo.

Cos’è il contrario della presenza?

Il contrario della presenza è lo spiritualismo che ha invaso le vene e le arterie dei cristiani. Una fede che è uno spunto sentimentale, psicologico – Lutero ha vinto dopo quattro secoli. Una fede che si sente, alla quale si dà un certo spazio affettivo, psicologico, ma anche di studio della Parola. Sono almeno trent’anni che si insiste sullo studio della Parola ma rimane un episodio. Dopo ci sono la fecondazione assistita, l’aborto, la guerra, la giustizia e l’ingiustizia e per affrontare e vivere questi problemi i criteri non sono la fede. L’assenza della presenza è uno spiritualismo che diventa sudditanza ideologica all’ideologia del momento. Invece la fede è la forma della vita e per questo è capace di dettare tutti i criteri e i passi della vita. L’assenza della presenza, questo spiritualismo che diventa sudditanza, è l’astrazione dei cristiani dalla vita e, quindi, è come se essi non ci fossero. Ricordo, anni fa, mentre ero su un taxi, l’autista mi dice: «Sa, Reverendo, io credevo che non ci fossero quasi più cristiani a Milano e invece mi sono dovuto ricredere vedendo le processioni». Erano le marce missionarie che facevamo con padre Gheddo e padre Gilardi del Pime. Come cristiani dobbiamo farci vedere. Bisogna che i cristiani si mettano dentro il mondo e dicano: «noi siamo qui come voi, ma per una ragione che ci precede, che è la presenza di Cristo nella nostra vita». Fuori di qui c’è spiritualismo o organizzazione cattolica che finisce per benedire progetti e iniziative degli altri, riducendo la nostra forza di cristiani al fatto di pensarla come gli altri.

Tenendo presente le missioni che nacquero nei primi anni di vita del Movimento, a Belo Horizonte in Brasile, la missione è uno sforzo oppure no?

In parte ho già risposto perché la parola missione equivale alla parola presenza ed equivale alla parola testimonianza. È il grande compito che Cristo ha lasciato ai suoi, quindi il grande compito di ogni battezzato: «mi sarete testimoni fino agli estremi confini del mondo» (At, 1, 8).

Rispondo con questo ricordo che ho vivissimo, come se fosse oggi e per certi aspetti è oggi: ero ancora al liceo, una mattina, stavo salendo le scale, erano le otto, vicino a Giussani e ad altri amici di GS della nostra scuola, e, a un certo punto, io e altri due o tre, quasi simultaneamente, abbiamo detto: «Don Gius, è troppo bello quello che viviamo per tenerlo solo per noi. Dobbiamo dirlo a tutto il mondo». La radice dell’impegno missionario è la stessa di questa intuizione degli anni del Berchet e la dilatazione dell’essere al Berchet è il mondo. Perciò deve vedersi in noi la preoccupazione per il mondo. I primi che sono partiti per il Sud America hanno testimoniato a noi, che vivevano la missione qui, che andavano a fare la stessa cosa in un contesto assolutamente nuovo ma con questa certezza: siccome era bello per noi, sarebbe stato bello anche per loro. Noi facciamo fatica a considerarlo ma è nata un’esperienza di movimento missionario nella Chiesa fra gente ancora minorenne che ha mantenuto per anni, almeno dieci, i suoi missionari pagando le decime settimanalmente o mensilmente, cioè decurtando quello che ricevevamo dai nostri genitori del 10%, del 20%, per mantenere la nostra gente che era là. Tuttavia, là è qua era lo stesso, non nel senso che fosse indifferente essere qui o là, ma essere là dava un significato, un’ampiezza, una visibilità, un fascino, una commozione grandi per noi e non si poteva dimenticare che Pigi Bernareggi un anno avanti a me, finita l’università, è andato a fare il prete a Belo Horizonte.  Ma se io non fossi stato presente nel mio ambiente non mi sarebbe neanche venuta in mente la possibilità che qualcuno potesse partire in missione e, se anche qualcuno fosse andato, me ne sarei disinteressato. La Chiesa, perdendo il senso della missione nell’ambiente, ha perso anche il senso della missione «fino agli estremi confini del mondo».

A partire dal 1959, sebbene fossimo pochi, ogni anno c’era un gesto pubblico, clamoroso, evidente alla città, di carattere culturale, il convegno di Gioventù Studentesca. Il primo fu sulla libertà della scuola e i laicisti vennero per spaccarci la testa e a qualcuno andò male. Intervenne la polizia e il convegno fu sciolto. I laicisti avevano inteso questa difesa della libertà della scuola come un attacco alla scuola di Stato.

Il secondo anno lo facemmo su «vivere le dimensioni del mondo». Venne Giorgio La Pira che raccontò cos’era la missione per lui con un’immagine: dagli spalti delle mura della città di Rabat, capitale del Marocco, si vedevano, il pomeriggio, decine di migliaia di corvi calare sulla città con un ordine, secondo un disegno preordinato; per lui la Chiesa doveva essere il perno di questo enorme movimento ordinato che si sarebbe dovuto creare. Ma, soprattutto, ricordo che la frase che reggeva il convegno era una bellissima frase di Pio XII: «le prospettive universali della chiesa sono le dimensioni normali della vita del cristiano». Se sei presente qui, capisci che puoi andare anche davanti al mondo o capisci che dei tuoi amici possono andare davanti al mondo e loro ci vanno per testimoniare quello che vivono con noi, secondo una dilatazione, una vibrazione, una visibilità, una commozione che non ci sarebbe senza di loro. Questa è la missione.

È certamente anche lo sforzo di andare via. Bisognava lasciare i parenti, salutarli e non c’erano le mail e i mezzi di comunicazione di oggi. Vi sarà magari capitato di leggere su Tracce le lettere che Giussani scriveva a questi nostri amici a Belo Orizonte. Poteva volerci anche un mese perché arrivassero a destinazione. Poi loro rispondevano e ci voleva un altro mese, quindi la corrispondenza era possibile due o tre volte all’anno. Le telefonate intercontinentali costavano moltissimo. Andare in missione voleva dire tagliare i rapporti familiari, oggi certamente molto meno. Ma la missione è la dimensione del quotidiano. Quelli che la vivono esplicitamente ricordano a tutta la Chiesa che, se non sono missionari a casa loro, non sono veramente cristiani; invece, se sono missionari a casa loro, sono aperti ad aiutare la gente che sente come propria vocazione quella di andare fino agli estremi confini del mondo.

Che cosa ha voluto dire don Giussani quando, rispondendo ad una domanda e riprendendo Elliott, ha detto che, a un certo punto della storia, l’umanità ha abbandonato la Chiesa ma anche la Chiesa ha abbandonato l’umanità?

La domanda che gli era stata posta era: è la Chiesa che ha abbandonato l’umanità o è l’umanità che ha abbandonato la Chiesa? E la risposta di don Giussani è stata: tutte e due. Perché indubbiamente gli ultimi secoli sono segnati da questo terribile tentativo dell’uomo di fare a meno di Dio, di fare a meno della domanda e, quindi, anche della risposta; sono secoli segnati dal tentativo di sostituire la domanda sulla verità e, quindi la possibile risposta che Dio dà, con il proprio potere, giungendo così a quel tremendo esito della modernità che è il nichilismo. L’umanità ha abbandonato la Chiesa. Quando papa Giovanni Paolo II ha tenuto gli esercizi spirituali a Paolo VI, il cui contenuto è stato poi pubblicato nel volume Segno di contrazione, ha detto che l’ateismo è un fenomeno che negli ultimi tempi della modernità è diventato la coscienza delle masse.

Ma è vero anche che la Chiesa non ha saputo fronteggiare un atteggiamento di distacco così radicale, almeno da un certo punto in poi. Prima aveva lottato contro questa modernità in senso positivo, poi è come se si fosse ritirata rischiando di smarrire la ragione del suo esistere. La Chiesa non è nel mondo per essere a favore o contro una qualsiasi posizione, non è definita per una scelta di una parte contro un’altra; la Chiesa è nel mondo per annunciare che Gesù Cristo è il redentore dell’uomo. Allora don Giussani in modo tagliente, io non posso che ripeterlo, ha detto che la Chiesa ha abbandonato l’umanità perché si è vergognata di Cristo. La Chiesa abbandona l’umanità tutte le volte che si vergogna di Cristo, mentre tutte le volte che riparte da Cristo fa fiorire la vita perché Cristo è la risposta che Dio ha dato al bisogno di verità, di bellezza, di giustizia, di bene, che è presente in ogni cuore. Invece, se mi vergogno di Cristo, mi blocco e mi trovo in una posizione che è comunque rinunciataria. Se io tendo a Cristo allora non posso che proporlo a tutti.

Chi è, oggi, l’uomo di Comunione e Liberazione nel mondo? Che cosa porta? 

È un uomo che si è sentito dire una frase incredibile, che ha formulato in maniera insuperabile, secondo me, il grande filosofo francese Gabriel Marcel: «tu puoi non morire». Ma perché ci siamo sentiti dire queste frase? Perché abbiamo incontrato il Signore della vita. Può dirti «tu puoi non morire» solo chi ha vinto la morte. La radice della nostra personalità è la fede e la fede, dice don Giussani, è riconoscere amorevolmente questa presenza che ci tira via dal nulla in cui finiremmo inesorabilmente senza questo incontro. La nostra identità e la nostra dignità sono qui. Il nostro compito è viverlo e annunziarlo. Per farlo bisogna avere ben presente una frase della Didaché, che è uno dei primi libri cristiani, siamo quasi certamente prima del cento, istruzione dei Dodici apostoli, cioè la regola di vita della prima comunità: «cercate ogni giorno il volto dei santi e traete conforto dai loro discorsi». Bisogna che stiamo insieme, che ci guardiamo, bisogna che impariamo reciprocamente, che ci aiutiamo a rendere sempre più viva la fede. La compagnia non ci sostituisce nell’impresa della fede ma ce la fa vivere sempre più umanamente.

Oggi è la festa dei santi Angeli custodi. Non apriamo il discorso su questo perché temo che molti di voi non credano alla loro esistenza. Comunque gli angeli non sono soltanto gli esseri invisibili che sono accanto all’uomo e lo aiutano a camminare verso Dio. Gli angeli, in senso lato, siamo anche noi, l’uno per l’altro. Gli angeli sono quelli che annunziano la fede e si custodiscono nella fede con riverenza, dice San Bernardo in un suo bellissimo brano in cui raccomanda la reverenza per la loro presenza. Bisogna avere la devozione per l’aiuto che ci danno e per la custodia della nostra vita. Il nostro popolo è un popolo di angeli custodi che ci vivono accanto. Guardando a loro impariamo a vivere, anche dall’ultimo di essi. Io non ho mai vissuto un incontro senza imparare, anche dall’ultima persona che arrivava nel Movimento.

Aiutiamoci a imparare a vivere la fede e vivendo la fede in noi proponiamola a tutti perché, come ha detto don Giussani a Chieffo a proposito delle sue canzoni («le sue canzoni sono sue ma per tutti»), la nostra vita, vissuta nella Verità, è per noi ed è per tutti: si chiama presenza, si chiama missione, si chiama testimonianza. Speriamo non diventi martirio, dato i tempi in cui viviamo. Comunque per quarantasei milioni di cristiani, nel secolo XX, la testimonianza ha voluto dire il martirio. Ricordatevi bene questa cosa e non dimenticatela mai. Dietro di noi, immediatamente dietro di noi, come la cosa più preziosa di tutta la storia che ci sta alle spalle, ci sono questi 46 milioni di cristiani, grandi e piccoli, uomini e donne, ignoranti o colti, poveri o ricchi, che con semplicità hanno detto che Cristo era più importante della vita.

Questo è l’uomo di Comunione e Liberazione, cioè un battezzato, un cristiano che vive il suo Battesimo cercando di portarlo alle estreme conseguenze: si chiama testimonianza, si chiama missione, si chiama incremento della Chiesa. Tutte le volte che uno vive realmente la fede incrementa anche la Chiesa.


Nell’immagine in evidenza:

MONS. GIUSSANI E DON LUIGI NEGRI CONVERSANO IN PRIVATO DOPO LA CONSEGNA DEL PREMIO CULTURA CATTOLICA AL FONDATORE DI CL, IL GIORNO 6 OTTOBRE 1995 A BASSANO DEL GRAPPA (PER GENTILE CONCESSIONE DELLA FRATERNITÀ DI COMUNIONE E LIBERAZIONE CHE HA ACCORDATO IL CONSENSO ALLA PUBBLICAZIONE DI IMMAGINI GIÀ EDITE IN ALTRE SEDI)