Pubblichiamo per ricordare l’anniversario della sua ordinazione episcopale (7 maggio 2005), l’omelia di mons. Luigi Negri pronunciata il 3 maggio 2015 nella Santa Messa pontificale a San Leo, in occasione dei dieci anni di episcopato. In essa si ricordano soprattutto gli anni nella sua prima Diocesi (San Marino-Montefeltro) e si delineano la prospettiva e la coscienza con la quale egli ha vissuto il suo compito di Vescovo.
Sia lodato Gesù Cristo!
Nel tempo che passa, nella varietà delle circostanze, nelle gioie e nei dolori, Cristo scrive col nostro cuore la storia della nostra vita e matura giorno dopo giorno, se siamo disponibili, quella fisionomia nuova e definitiva di noi che è la partecipazione alla sua risurrezione.
Se debbo raccogliere nella vastità dei sentimenti, dei giudizi, degli avvenimenti, di questi anni così straordinari della mia permanenza fra di voi e del mio servizio, io credo che la prima e definitiva cosa che ho tentato di essere in mezzo a voi sia quello per cui avevo vissuto fino ad allora e che qui si intensificava in maniera definitiva non dandomi più spazio per altre preoccupazioni e per altri sentimenti: rendere presente Cristo.
Questo nella fattispecie precisa del Vescovo non è una rappresentanza generica ma è una rappresentanza specifica, perché è il Signore Gesù Cristo che, attraverso l’immagine e la figura del successore degli apostoli, preposto a questa Chiesa particolare, si fa presente nella vita di tutto questo popolo e diventa quotidianamente punto di riferimento.
Quindi il Vescovo è testimone del Signore davanti a tutti e per tutti, ma devo confessare che è accaduto qui ciò che probabilmente è accaduto tante altre volte ma di cui non mi ero reso consapevole fino ad allora: la presenza di Cristo crea uno spazio di socialità nuova, è come una casa. Annunziare Cristo e renderlo presente nella testimonianza, nella Parola, nel Sacramento, nella carità pastorale, crea un popolo, anzi, crea e ricrea un popolo. Sono stato sorpreso dal fatto che quello che era accaduto tante volte, qui avveniva in maniera singolarissima, con una consapevolezza nuova ed una responsabilità nuova in me. Ho aperto questa casa, la casa della Chiesa, la casa che io rendevo presente, l’ho aperta a tutti senza condizioni. Le porte della mia casa come le porte del mio cuore sono state aperte a tutti senza nessuna esclusione, senza nessuna limitazione. In questa capacità di accogliere è nato un sentimento nuovo ed irresistibile: tutti fratelli e sorelle in questa casa, nella presenza di Cristo e per la presenza di Cristo. Abbiamo visto animarsi il nostro cuore di un sentimento nuovo e di un affetto nuovo, quell’affetto che non viene meno perché nasce dalla consapevolezza della presenza di Cristo, così come non potrebbe venir meno l’affetto che nasce dal mistero di Cristo che stringe un uomo e una donna definitivamente nella vita. È solo la cattiveria e la mediocrità dei tempi in cui viviamo che possono mettere il punto interrogativo su qualcosa che, siccome nasce da Cristo e si riferisce a Cristo, è come Cristo: per sempre. Ognuno di voi in questa casa ha utilizzato lo spazio come ha voluto e mai si è sentito dire “fai poco, devi fare di più”, perché ho accettato la vostra libertà e così si sono realizzate sintonie bellissime e profonde con gente nuova, altre che avrebbero potuto essere attese come consonanze profonde non sono state all’altezza dei miei desideri, ma forse erano sbagliati i miei desideri.
Siamo cresciuti nell’affezione reciproca, e il Signore fra di noi, ed in questo ci siamo arricchiti. Ho imparato certamente di più in questi anni della mia vita di Vescovo di quanto non abbia dato, e la cosa che ho imparato di più è la straordinaria dignità del popolo cristiano.
Penso alla dignità che ho incontrato nelle visite pastorali, nelle famiglie più povere, quelle in cui c’erano malati e visitando le case di riposo. La dignità di essere figli di Dio oggi, in questa terribile tentazione sociologica che sembra aggredire la Chiesa stessa, finiamo anche noi per porla nella cultura – come se non ci fosse un’espressione più equivoca della parola cultura – nel potere economico e nel lavoro. Queste sono tutte cose vere ma secondarie, perché la vera dignità è quella di essere figli di Dio e l’aver ricevuto il battesimo che fa di noi un essere nuovo, e in seguito ci fa affrontare le circostanze della vita con la serena certezza che tutto serve per incrementare il Regno di Dio nel mondo. Certo sarebbe bello vedere e vivere in una società più giusta; in questi ultimi anni il buon Dio ci ha chiamato a vedere, in maniera sconsolata, che tutto si sta disfacendo sotto i nostri occhi. Certo che è giusto lavorare per il pane di tutti, per la giustizia di tutti, per il rispetto di tutti, ma questo non incrementa quella dignità del popolo di Dio che è già nel mistero del Battesimo in cui, come tante volte ci ha ricordato Benedetto XVI, Dio si fa carico di ciascuno di noi. Qualche volta quando sento attribuire la dignità a quella o a questa condizione sociologica ricordo ai miei interlocutori che l’Europa ha incominciato la sua conversione ben prima di quando sono arrivati i benedettini, mandati da quella grande personalità ecclesiale che fu San Gregorio, e precisamente dai canti degli schiavi che si levavano dei battelli romani. Quegli schiavi, in quella condizione di schiavitù, comunicavano la fede con i loro canti. Alcuni dei primi Papi erano certamente liberti, qualcun altro schiavo.
Fratelli e sorelle, recuperiamo questa straordinaria dignità di essere figli di Dio e fratelli di Gesù Cristo, nella salute e nella malattia, nella gioia e nel dolore. Io ringrazio il Signore che attraverso la compagnia con molti di voi ha richiamato la mia vita alle cose essenziali, definitive, come la capacità di carità, la capacità di accoglienza senza pretese e pregiudizi. Questa dignità di figli di Dio portiamola in un mondo come quello di oggi testimoniando, attraverso la dignità con cui mangiamo e beviamo, vegliamo e dormiamo, viviamo e moriamo, come hanno fatto centinaia di martiri che improvvisamente sono venuti a ricordarci, con la loro morte, che la testimonianza di Cristo può essere che si concluda con il martirio.
Questa è stata la grande esperienza di questi anni che nella mia memoria si rincorrono ancora con una capacità di sentirvi presenti singolarmente soprattutto quelli che ho conosciuto di più, come per esempio i sacerdoti di questa Diocesi. Alla fine della giornata, prima del meritato riposo, sosto nel mio studio e guardando i ritratti dei sacerdoti di San Marino-Montefeltro che sono morti durante gli anni del mio episcopato e li sento singolarmente vicini, così come sento vicine quelle fatiche fisiche e psicologiche che ogni tanto, nonostante la lontananza, arrivano alle mie orecchie e quindi si situano dentro il cuore con affezione.
Abbiamo fatto una grande esperienza di carità e forse abbiamo imparato che la carità è certamente iniziativa di Dio e caratteristica di Dio, ma forse abbiamo impara to dal vivo che la carità è Dio e che non c’è altro volto, altra esperienza di Dio, se non nella carità vissuta, per questo – come ha ben ricordato Mons. Andrea Turazzi – il punto radicale e verticale di questi anni fu proprio la visita di papa Benedetto XVI che venne fra di noi in queste valli che non avevano mai visto il vescovo di Roma, fra questa case che si sono improvvisamente riempite di fiori e tappeti e lenzuola come nella processione del Corpus Domini, perché non è una cosa diversa accogliere il successore di Pietro che aprire il cuore alla presenza di Cristo.
Cristo non ci sarebbe nel mondo di oggi senza la successione apostolica, e il capo della successione apostolica, tanto è vero che chi ha negato o ha ridotto il peso dell’autorità nella Chiesa ha finito per perdere il mistero stesso di Cristo. In quello che fu il più bel giorno della mia vita il Papa disse a tutti noi: «Siate laici, vivi, attivi ed intra prendenti». Ecco, fratelli e sorelle, questa frase l’avrò ripetuta centinaia di volte per ché questo è il programma della vita cristiana ovvero che ci sia nel mondo un popolo vivo, attivo ed intraprendente che non accetta di sopravvivere lentamente e meschina mente. Noi siamo gente che vive e, come diceva Benedetto XVI, «la nostra vita siccome è vera è anche bella» o come dice Papa Francesco, che non finisce di sorprenderci per la concretezza dei suoi richiami, alla fine della enciclica Lumen Fidei: «se il popolo cristiano c’è, esiste e vive, realizza nella vita di tutta la società una scia luminosa».
Desiderate, dunque, tutto quello che sentite giusto e vero per voi. Desiderate tutto quello in cui il vostro cuore possa trovare corrispondenza e comprensione, ma prima desiderate di essere una fiammella viva in questa fiamma che è la Chiesa, per ché possa essere, di fronte all’uomo d’oggi, annunziata la certezza che Cristo, e solo Cristo, è la salvezza dell’uomo e del mondo.
Su questo chiedete alla Madonna Santissima che renda possibile questa ripresa continua, nonostante tutte le nostre difficoltà e i nostri errori, perché come ha detto l’apostolo Giovanni oggi: anche se il nostro cuore ci rimprovera, il Signore non ci rimprovera. Nella carità ecclesiale, avendo come termine di riferimento il sacramento della riconciliazione, dentro la vita della comunità cristiana è possibile quella esperienza di perdono che rinnova la nostra vita momento dopo momento, giorno dopo giorno. So che colui che la provvidenza ha chiamato alla guida di questa chiesa è l’uomo più adatto perché la vostra comunità faccia un altro passo verso l’avvenimento della comunione e della missione. Il sacrificio di andar via di qui, è stato compensato dal sacrificio di lasciar venir qui don Andrea. Così sia.
Saluti finali
lo vorrei sintetizzare l’affezione che provo ad alcune persone come espressione di quello che ho tentato di comunicarvi nell’omelia. Di tutto il clero io conservo un’affezione grandissima per don Elio Ciccioni, perché abbiamo camminato insieme e quello che ho descritto prima, ossia di una comunanza di appartenenza alla Chiesa che è diventato affetto, si è realizzato in quegli anni in maniera straordinaria e io conservo nella memoria come una presenza intensa, così come conservo da qualche mese la ferita gravissima per le condizioni di salute di don Maurizio. Ricordo poi l’espressione più viva del laicato come il presidente dell’Azione Cattolica di allora, con cui è stato possibile una profonda collaborazione sulle questioni fondamentali. Non posso non ricordare un gruppetto esemplare di madri e di padri che hanno rea gito con fede e con forza ad una condizione di malattia dei loro figli creando una delle cose più belle che io abbia incontrato nella mia vita. Il Signore ha riempito e riempie la nostra vita di grandi eventi, di miracoli, ma bisogna aver gli occhi per vederli per ché quello che avveniva nella Chiesa primitiva avviene in ogni momento. Occorre che il nostro occhio, guardando Cristo, e continuando a guardare Cristo, sia capace di leggere i segni di cui è riempita dal Signore la nostra vita. Sant’Agostino diceva che non c’è niente nella vita che non ci porti la voce del mistero di Cristo. Ringrazio tutte le autorità che sono intervenute.
Grazie a tutti.
Luigi Negri, Omelia della Santa Messa pontificale, Cattedrale di San Leo, 3 maggio 2015