La natura del sacerdozio come immedesimazione con Cristo

immagine di mons. Luigi Negri che celebra messa
(tratto dagli esercizi spirituali tenuti da don Luigi Negri ai giovani frati minori francescani a Monteluco di Spoleto, settembre 2000)

Il sacerdozio fa tutt’uno con la Chiesa e con Cristo e, quindi, è singolarmente espressivo del mistero di Cristo, perché è nella Chiesa e per il mondo l’immagine obiettiva di quel Signore Gesù Cristo, per il quale il sacerdote vive ed agisce, attraverso il sacramento e la parola. Lo è nella sua persona – anche se dilatatamente – quando esercita nella vita della comunità la funzione di guida, quindi di educatore del popolo.

Ora si tratta di vedere le linee lungo le quali il sacerdozio viene attuato: dall’ontologia del sacerdozio, generata dall’ordinazione sacra, dall’impatto con lo Spirito del Signore risorto, all’attuazione. Il sacerdozio, come ogni vocazione cristiana, non è un meccanismo; se ha una garanzia oggettiva che agisce ben oltre e al di là dei limiti personali (come la tradizione della Chiesa ha messo in evidenza), è pur vero che, nella sua vita, il sacerdote ha un compito, un compito ascetico-spirituale ancor prima che pastorale, perché lo sviluppo della pastorale sarà l’effondersi, il traboccare di quella verità di fondo che il sacerdote continua ad attuare, assimilandosi al Signore. Quindi è innanzitutto da ricordare che il filo conduttore, o il fattore propulsivo della vita sacerdotale, è l’immedesimazione con Cristo, è questa apertura incondizionata della vita a questo fatto che è presente ormai nella struttura ultima della vita. Questo atteggiamento di accettazione invade progressivamente l’esistenza, la modifica e l’attrae sempre più profondamente a sé. L’alter Christus, che nella tradizione cattolica dice questa singolarissima configurazione del sacerdote a Cristo (sacerdote, re e profeta) diventa anche il compito etico: diventare l’alter Christus, quell’alter Christus che si è già per l’ordinazione sacra, diventa la responsabilità profonda.

Immagine del quadro di Mattia Preti raffigurante una madre che affida a Cristo i propri figli

Mattia Preti, Una madre affida i propri figli a Cristo, Pinacoteca di Brera

Mi pare che in questa linea si debbano leggere le costanti ascetiche ed etiche della “spiritualità presbiterale” che corrono lungo tre direttrici fondamentali e, in modo assolutamente simile, si originano nell’atteggiamento di dedizione a Cristo, diventando poi, nella saggezza della Chiesa e per la saggezza della Chiesa, impegni anche pubblici e canonici, con maggiore o minore (secondo gli intendimenti della Chiesa) intensità.

Memoria

La prima linea è quella che io raccolgo attorno al tema della memoria. In Cristo ci si immedesima con la memoria, cioè con la preghiera, con la mendicanza, con l’offerta continua della propria vita a Lui perché nel Suo Spirito di risorto investa la terra della vita e la trasformi. “Della sua Grazia è piena la terra” (Salmo 32), la terra della vita, della nostra umanità, la terra arida dei nostri rapporti, della nostra sensibilità, arida o impetuosa.

Occorre che al Signore vengano nella preghiera aperti il cuore e la vita, in modo che avvenga quella che Emmanuel Mounier, in una delle sue più belle Lettere sul dolore, scritte nella contemplazione dolorosa e nella sopportazione caritatevole della bambina gravemente cerebrolesa che gli era nata, definisce come l’arrendersi a Dio.

La preghiera, la memoria come preghiera. È qui che avviene la salvezza pedagogica della regola di preghiera che, intensificata in una regola come quella sacerdotale, ha certamente una sua validità oggettiva per tutti i presbiteri della Chiesa di Dio nella Messa e nel Breviario. Attraverso la Messa, come celebrazione del mistero di Cristo, il sacerdote si immedesima sempre più nella comunicazione di questo mistero agli uomini. È attraverso la celebrazione della Messa che si diventa preti. Il vertice della immedesimazione personale è il vertice del servizio. Giovanni Paolo II nel suo libretto autobiografico Dono e Mistero e poi nell’omelia fatta per i suoi ottant’anni, durante il Giubileo dei preti, a cui ho partecipato, ha detto: “Io ho perso poche volte la Messa; non ho celebrato la Messa solo pochissime volte e, sempre e soltanto, in caso di necessità grave”. Tutti abbiamo pensato a quando era ricoverato al Gemelli, dopo l’attentato.

Ma – dicevano i padri spirituali del seminario di Venegono – è come se questo atteggiamento di immedesimazione fosse poi prudentemente richiamato nella giornata attraverso la celebrazione dell’Ufficio. Momenti di ri-radicazione come coscienza dentro il mistero celebrato. Il Breviario si connette alla celebrazione della Messa e ne distende l’efficacia nella coscienza e nel cuore: lungo le ore della giornata è possibile ritornare, riprendere il mistero e perciò investire della luce del mistero le circostanze concrete della vita e la sua materialità.

Castità

Il secondo filo è quello della verginità come imitazione totale di Cristo. Percepire una chiamata a un possesso travolgente di Lui che rende secondario ogni altro possesso e fa, perciò, abbandonare lietamente la possessività verso le persone e le cose, guadagnando quella libertà dalle persone e dalle cose che contiene certamente un distacco, ma è il distacco che nasce dall’aderire totalmente a Cristo e diventa un nuovo tipo di possesso. La verginità, che fenomenicamente si esprime come distacco, è un’immedesimazione radicale con Cristo, che genera un nuovo possesso, un possesso profondo, in Cristo, del mondo, un possesso con dentro una libertà delle cose e delle persone. Per esempio, quando san Francesco diceva che tutto l’universo era suo, diceva il vertice della verginità.

Io ricordo una volta, con stupore e con commozione a tanti anni di distanza, il grande biblista Enrico Galbiati, che ci insegnava in seminario a leggere la Bibbia, soprattutto l’Antico Testamento, una mattina faceva lezione in quello che si chiamava “lo scolone”, cioè dove convenivano sia gli studenti della facoltà, sia quelli dei corsi comuni, che era antistante una grande vetrata aperta sulle Prealpi (che da lì si vedevano benissimo), le Prealpi che da Varese salgono verso la Svizzera. Era una giornata dal cielo limpido, di quelle che ci sono in Lombardia ogni tanto – quelle per le quali il Manzoni diceva: “questo cielo di Lombardia, così bello” –, e si vedeva tutto, sembrava di toccare in lontananza il Monte Rosa. Allora Galbiati si sedette sull’altissimo scranno della cattedra e disse: “Vedete? Questa cosa qui è mia! È di Dio ed è mia! È mia, è una cosa mia! Ma siccome Dio e io non siamo egoisti, ve la facciamo vedere anche a voi”. Tutti risero, ma pochi capirono la profondità dell’osservazione: è un possesso della realtà con una libertà dentro.

La verginità ha la forma del sacrificio, ma non ha come contenuto il sacrificio. Se avesse come contenuto il sacrificio, sarebbe una limitazione della natura, invece è un superamento, è un’esaltazione della natura. Dentro il filo della verginità sta la povertà che, oltre ad essere una tensione ideale nella verginità, è anche una forma che facilita la verginità.

Ora, la verginità ha una sua verifica canonica nel legame stretto che la Chiesa latina stabilisce fra la chiamata al presbiterato e la scelta della verginità e si codifica come celibato. Per i monaci è più radicale, è un voto, sia quello della castità sia quello della povertà, come anche quello dell’obbedienza, ma occorre recuperare la motivazione cristologica, altrimenti nella vita quotidiana la legge tiene fino a un certo punto: anche la formulazione minimale del celibato, così come è contenuta nel diritto canonico, per il sacerdote non starebbe in piedi se non fosse continuamente rigenerata alle fonti dell’amore incondizionato a Lui.

Obbedienza

Il terzo filone è quello dell’obbedienza. L’obbedienza è il punto di più concreta immedesimazione con Cristo, che è grande come uomo perché ha obbedito incondizionatamente. Pur avvertendo nella sua volontà umana (come dicono i primi Concili) la discrepanza fra la sua volontà (e quindi quella inevitabile progettualità che la volontà dell’uomo ha dentro) e la volontà del Padre, vi si è adeguato: la volontà dell’uomo ha aderito alla volontà del Figlio di Dio pur portando il peso della sproporzione (“Non la mia, ma la Tua volontà”).

È a livello dell’obbedienza che si riscopre il valore fondamentalmente spirituale e ascetico dell’autorità. L’autorità è garanzia oggettiva della comunità, senza la quale non esiste la comunità cristiana, e diviene, nella pratica della obbedienza presbiterale, la più grande facilitazione ad imitare Cristo obbediente, factus oboediens usque ad mortem. La volontà del Signore ha una immediata e facile canalizzazione nella volontà del superiore. Ora, tutto quello che i grandi fondatori delle congregazioni e degli ordini, cominciando da san Benedetto e san Francesco, hanno scritto sulla identificazione con la volontà del superiore come con la volontà di Cristo e di Dio, ha questa essenziale radicalità cristologica: è il modo con cui Cristo mi coinvolge e mi fa agire. L’obbedienza, che è il vertice dell’amore a Lui, si attua attraverso la devozione a colui che per me ne è segno.

Certo, la volontà del Signore passa attraverso l’autorità alla quale si obbedisce e impegna l’autorità ad essere decisa e paterna, decisa nella formulazione con chiarezza del comando. La fatica del presbitero oggi è che non gli viene comandato con chiarezza o, quando gli viene comandato con chiarezza, è una chiarezza senza misericordia, perciò è autoritarismo. L’autorità non è mediazione (“fai quel che vuoi”) ma non è neanche un autoritarismo senza ragioni e, soprattutto, senza comprensione dell’inevitabile limite, che deve essere chiaramente ma misericordiosamente ripreso come giudizio.

La chiarezza nel comando e la misericordia nel tratto, non l’implicito nel comando e l’equivoco nel comportamento; la chiarezza nella formulazione del comando, grazie al giudizio dato chiaramente, ma nella misericordia di chi sente che anche l’errore è un passo nel cammino della vita.

Questi tre punti – memoria, verginità e obbedienza – recuperati nella loro struttura cristologica, che poi trovano la loro codificazione ecclesiale ed addirittura canonica, sono ciò che suggerisce a noi preti e, allo stesso tempo, rende possibile per noi l’immedesimazione. Il sacerdozio si realizza come immedesimazione con Cristo.

Quindi, innanzitutto l’etica del sacerdozio è l’immedesimazione; consiste nel chiedere che si attui ciò che c’è già, in un atteggiamento di vera e incondizionata adesione. Anche qui è la figura mariana che prevale: Fiat mihi, che avvenga di me quello che è già accaduto. In Maria c’era già il Figlio di Dio fatto carne, in noi c’è dentro questa straordinaria configurazione a Lui: sacerdote, re e profeta. Accada, prenda forma in me questo, con la partecipazione integrale della mia intelligenza e della mia libertà.

Le finalità del sacerdozio

Da qui scaturisce la carità pastorale come tendenza a generare il popolo. Ovunque esiste un prete che vive la sua carità pastorale, nasce un popolo cristiano, poiché l’uomo è chiamato a riconoscere Cristo presente e a riconoscerlo come la grande risposta che Dio ha dato all’uomo.

Il prete fa nascere il popolo nel sacrificio della sua vita, umile e obbediente, e perciò incondizionatamente tesa alla proclamazione della Parola, alla formulazione, all’amministrazione dei Sacramenti e alla guida di quella fede che Parola e Sacramenti fanno scaturire nel cuore quando si incontrano Grazia e libertà, quando la Grazia della Parola e del Sacramento incrocia la libertà che dice “ci sto”. Nasce il popolo, di una nascita spirituale che assimila la funzione del sacerdote alla funzione mariana: è la maternità di Maria che in qualche modo – dicevano i Padri della Chiesa – si dilata e si rende esperienza nella vita e nella storia degli uomini.

Che il popolo esista e che il popolo cresca. La crescita del popolo è la sua educazione. Le linee di educazione della Chiesa per la maturazione della personalità della fede sono: cultura, carità, missione e, quindi, vocazione. Sono il contenuto della nostra carità pastorale, ma con una premessa: che non si può educare se non si ama. E l’amore è questo credito all’altro nel mistero del suo cuore, che vien prima di tutte le condizioni nelle quali troviamo la nostra gente. Prima di tutti i condizionamenti amare il mistero, cioè amare il destino che c’è in ognuno e, perciò, nel rivolgersi all’altro, nel considerare l’altro, avere sempre aperto il cuore a tutte le possibilità, perché se Dio ce lo ha messo sulla strada è per un progetto, è per un piano che Egli ha su quella persona, del quale noi non possiamo decidere né la durata, né la modalità.

Questo significa una continua riapertura di credito, un’adesione al mistero del cuore umano. Non si può educare una massa anonima e non si può educare avendo con il proprio popolo un rapporto formale: il popolo è fatto di persone, ciascuna delle quali ha una sua identità, storia, carattere, ha una sua vicenda, un suo passato. Occorre l’immedesimazione con ogni persona, l’apertura della vita ad ogni persona.

In una delle sue udienze generali Giovanni Paolo I, con uno dei suoi gesti semplicemente profetici chiamò un bambinetto, che salì le scale che portavano al trono, alla sedia, e gli disse: “Come ti chiami?”, e lui disse: “John” (era un bambino irlandese). Gli chiese allora: “John, vai a scuola?”, “Sì” (gli fece capire che avrebbe fatto la prima media). Allora il Papa disse: “Allora studierai il Latino”, e John rispose: “Sì”. Il Papa, parlando a tutti, commentò: “Per potere insegnare veramente il Latino a John non è sufficiente che John voglia imparare il Latino e che io sappia il Latino, ma è necessario che io voglia bene a John”.

Non esiste educazione se non nell’amore e l’amore è a un singolo, non è mai rivolto a una massa: si ama il popolo come sintesi dell’amore ad ogni singolo di questo popolo e l’amore ad ogni singola persona è un po’ un morire con ciascuna di queste persone, perché è amare il loro destino più di quanto non lo amino loro.

Quante volte ci è accaduto di aprire nel cuore delle persone il senso della propria dignità e del mistero della propria dignità che non avevano per il modo con cui erano stati indotti a vivere fino ad allora, per il modo con cui li avevano usati. Non si può amare senza amare il mistero che c’è nel cuore di ogni uomo e rivelarlo, in qualche modo. Il più delle volte, alle persone che incontrerete, dovrete rivelare la profondità della loro vita, che nessuno, fino all’incontro con voi, li avrà mai educati a percepire, neanche il loro padre e la loro madre, che le hanno magari riempite di cose, ma non sono stati capaci di far percepire il senso profondo della loro domanda di vita. Come disse una studentessa che si suicidò nei bagni della Stazione Tiburtina una quindicina d’anni fa e lasciò un biglietto per i suoi genitori: “Ho avuto nella vita il necessario ed il superfluo, ma non l’indispensabile”.

Fotografia di mons. Luigi Negri nell'atto di celebrare la Santa Messa

Mons. Luigi Negri celebra la Santa Messa

Per la maggior parte di noi sarà aprire nella vita dell’altro un livello ignoto, al “Dio ignoto”. Noi andiamo negli areopaghi di questo mondo, come ha detto il Papa tante volte, ma gli areopaghi di allora erano pieni di gente che aveva coscienza e sulla coscienza discutevano dalla mattina alla sera. Gli areopaghi di questo mondo sono areopaghi di gente che è abituata a non pensare. Per molti l’apparire del prete nella propria vita significa andare al fondo di una cosa ignota: noi portiamo un “Dio ignoto” a un uomo che è ignoto a sé stesso.

Tutto questo nella consapevolezza che, come la vita non è nostra, così la vocazione cristiana non è nostra, così il sacerdozio non è nostro perché è agito con lo Spirito. Noi non abbiamo mai riflettuto a sufficienza sul fatto che il protagonista della vita della Chiesa, e quindi di ogni vita, non è il singolo, ma è la comunione della persona con la Trinità, perciò innanzitutto è profondamente con lo Spirito del Signore, che il Signore ha mandato come consolatore e illuminatore della vita.

In noi c’è certamente la tentazione individualistica e soggettivistica, che abbiamo addosso per il cammino della cultura del nostro tempo, che ci porta a guardare la vita di fede come a uno sforzo individuale, come l’esprimersi di opzioni (teologiche, etiche, pastorali). Noi guardiamo alla nostra vocazione, così come si svolge nella nostra giornata, come al prodotto della nostra iniziativa. Il Signore guardava la sua vita in un dialogo permanente col Padre: “Quello che il Padre vuole, faccio sempre”.

È diverso vivere la propria vocazione all’interno di una comunione che si attua quotidianamente piuttosto che viverla individualmente. La vera solitudine deve essere vinta all’origine. Poi può essere facilitata dalla vita comune che non è una somma di individui, perché la vita comune come somma di individui non è per niente un aiuto e il più delle volte è un ulteriore aggravio. La solitudine è vinta radicalmente nella consapevolezza di una appartenenza quotidiana al mistero di Cristo nello Spirito. Perciò è fondamentale invocare lo Spirito e chiedere i doni dello Spirito Santo. Il Papa, nella Lettera ai Sacerdoti del ’98, fa vedere come tutti i doni dello Spirito Santo siano essenziali per il cammino sacerdotale, ma i doni dello Spirito vengono, se chiesti e, ancor meglio, se chiesti all’interno di una comunione che viene vissuta.

Grazie allo Spirito, nell’intelletto riceviamo una più profonda penetrazione della Verità rivelata, che ci spinge a programmare con forza e convinzione il nostro agire secondo il disegno di salvezza. L’intelletto favorisce il coraggio dell’evangelizzazione. L’evangelizzazione è rispondere a un mandato dello Spirito: non posso farlo senza il suo intervento. Con il consiglio lo Spirito illumina il ministro di Cristo perché sappia orientare il proprio agire secondo le vedute della Provvidenza, senza farsi condizionare dai giudizi del mondo. Dove sta la forza che fa opporre alla mentalità dominante? È la forza dello Spirito, al quale chiediamo il consiglio.

Con la fortezza lo Spirito ci sostiene nelle difficoltà del ministero, infondendo nella necessaria traversia dell’annuncio del Vangelo la forza che ci fa dire che è più giusto obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. Dove sta la forza dell’uomo, la forza del cristiano, la forza del prete? Nell’abbandono allo Spirito. Poi tutto il resto, ma innanzitutto nell’abbandono allo Spirito. Le prime difficoltà dovrebbero trovarci protesi a dire: “Dacci questa forza!”.

Con la scienza lo Spirito ci dispone a comprendere e ad accettare l’intreccio talvolta misterioso – bellissimo! – tra le cause seconde e le cause prime. Non avete l’impressione, quando succedono delle vicende gravi di cronaca, di cronaca terribile, che anche da parte degli stessi uomini di Chiesa che intervengono – il parroco, il Vescovo, ecc… –, vi sia una lettura non cristiana di quello che è successo? Quando non è irosa identificazione con la richiesta di giustizia, con addirittura nel corso della Messa la sola invocazione della maledizione di Dio sui rei, spesso essa si riduce a una serie di osservazioni assolutamente buoniste, che non colgono il mistero. Invece in tali vicende c’è dentro qualche cosa che Dio vuole dirci. Attraverso la gravità del gesto e della responsabilità si può capire come il perdono non si possa dare a cuor leggero e la prima parola non sia la parola “perdono”. Occorre prima riconoscere una pedagogia terribile. Dio, attraverso le prove della vita, in cui c’entra la responsabilità degli uomini che fanno il male, ci sottopone a una prova terribile: quelli che hanno servito nella loro volontà questi progetti terribili sono colpevoli e bisogna dirlo, ma il giudizio sulla colpevolezza paradossalmente induce al perdono. Tuttavia, è un perdono che non si può dare a cuor leggero e che non si può negare a cuor leggero. Chiedere la pietà come intimo rapporto di comunione con Dio e fiducioso abbandono alla sua clemenza, misericordiosi come è misericordioso il Padre, perdonare nella misericordia di Dio, è una cosa che sconvolge, non è una cosa che si possa gorgheggiare davanti alle macchine televisive. Perdonare vuol dire morire con chi è morto per poter perdonare chi l’ha ammazzato. Se non c’è pietà verso Cristo, non c’è pietà verso gli uomini. Si può anche parlare di perdono e di giustizia e utilizzare gli uomini e le vicende per la propria immagine.

Immagine del quadro di Pere Serra L'annunciazione

Pere Serra, L’annunciazione, Pinacoteca di Brera

Infine, il timore di Dio, che consolida nel sacerdote la coscienza della propria fragilità umana e fa chiedere la grazia tutti i giorni. Che saggezza! Così, mi sembra di poter dire, il vertice dell’uomo dell’istituzione (perché il prete nella vita concreta della Chiesa è l’uomo dell’istituzione, è l’uomo che garantisce l’istituzione, cioè la possibilità oggettiva della fede, perché senza sacramento e senza parola non esiste la possibilità oggettiva della fede cristiana) è il vertice della dimensione mariana, perché bisogna vivere quello che si dice, che si fa nel rito dell’ordinazione. Nella semplicità e nella elementarità che è stata acquisita dopo il Concilio è assolutamente evidente perché ci è data una grazia e ci è detto: “dovete essere fedeli a questa grazia, non potete predicare senza vivere quello che predicate, non potete amministrare senza che l’amministrazione del sacramento sia il sacrificio della vostra vita”. La prevalenza di Maria, il fatto che in Maria è la forma sintetica della Chiesa, madre e immagine della Chiesa, è in ogni vocazione cristiana, in ogni vita cristiana che si realizza.

Allora la vocazione sacerdotale, che è la nostra chiamata a vivere la memoria di Cristo e la sua missione, ci configura a un livello senza il quale la Chiesa non può essere ciò che è: tutta la Chiesa è nel Vescovo e, quindi, partecipatamente tutta la Chiesa è nel sacerdote come struttura oggettiva, come condizione oggettiva. Tuttavia, tutta la Chiesa è nel cuore di un prete perché deve amare il mistero di Cristo e della Chiesa più di sé: servirebbe comunque la struttura oggettiva anche se fosse un delinquente, ma non ci sarebbe gusto a vivere questa grazia assoluta che Dio ci ha dato, non per nostro merito. Come ogni vocazione cristiana, la vocazione sacerdotale è per la edificazione della Chiesa.

Il Papa nella Redemptor hominis, prima dell’ultimo travolgente capitolo sulla Madonna, ha recuperato una delle più belle espressioni della tradizione: “servire Deo regnare est”. La vocazione è la partecipazione alla costruzione del Regno attraverso la realizzazione piena della propria umanità, ma ciò avviene non perché uno afferma sé stesso, ma perché segue Cristo. “Servire per regnare”. Tutta la tragedia dell’umanità, in tutta la sua storia, si è verificata quando l’uomo ha separato il servire dal regnare e ha preteso di regnare in forza dei propri progetti, delle proprie idee.

Dice il Papa nella Redemptor hominis: “Nella Chiesa come nella comunità del popolo di Dio guidata dall’opera dello Spirito Santo, ciascuno ha il proprio dono, come insegna san Paolo. Questo dono, pur essendo una personale vocazione e una forma di partecipazione all’opera salvifica della Chiesa, serve parimenti agli altri, costruisce la Chiesa e le comunità fraterne nelle varie sfere dell’esistenza umana sulla terra”(Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, 21). Si sottolinea certo la fondamentale analogia fra ordine e matrimonio, perché ciascuno nel suo ordine sono la partecipazione alla totalità di Cristo, con funzioni che sono oggettivamente diverse, ma ogni chiamata è per la pienezza dell’esperienza di Cristo.

“La fedeltà alla vocazione, cioè la perseverante disponibilità al servizio regale, ha un particolare significato per questa molteplice costruzione. Per la fedeltà alla propria vocazione devono distinguersi gli sposi, come esige la natura indissolubile dell’istituzione sacramentale; per una simile fedeltà alla propria vocazione devono distinguersi i sacerdoti, atteso il carattere indelebile che il sacramento dell’Ordine imprime nelle loro anime” (Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, 21).

Il sacerdozio, quindi, avviene sempre in una esperienza carismatica, sempre, perché la fede non ci arriva nuda, ci arriva vissuta; la fede ci ha colpito perché era una fede vissuta, testimoniata dal padre e dalla madre, dal prete della nostra parrocchia, dal predicatore che è passato per il nostro paese.

Nella Chiesa l’esperienza della comunicazione della fede è sempre un’esperienza carismatica, anche se esiste una differenza fra i carismi impliciti, di cui è piena la Chiesa, e i carismi che hanno avuto una storia e una verifica ecclesiale. Un prete, che educa il suo popolo, fa riconoscere a chi è chiamato al sacerdozio, come a chi è chiamato al matrimonio, la propria vocazione, e fra lui e i suoi figli si stabilisce un legame assolutamente particolare, che può durare tutta la vita! È il carisma di san Francesco, o di sant’Ignazio di Loyola, o di san Giovanni Bosco: di fronte all’imponenza della comunicazione da cuore a cuore, da generazione a generazione, la Chiesa dice: “Qui c’è qualche cosa di stabile e di storicamente rilevante”.

La vocazione cristiana non ha come contenuto il contesto, ha come contenuto l’immedesimazione con Cristo, ma nasce in un contesto: come la vita della carne nasce nel contesto del padre e della madre, così la vita dello spirito nasce in un contesto per la Grazia di Cristo e si alimenta. Occorre, per un certo aspetto, relativizzare la questione del carisma e, per un altro aspetto, renderla imponente: ciascuno di noi è qui per un incontro carismatico. Per voi questa realtà carismatica ha la stabilità, la definitività, l’impegnatività del riconoscimento della Chiesa e l’attestazione di questa storia dell’Ordine, che dura da sette secoli.


Il testo integrale degli esercizi spirituali tenuti da don Luigi Negri ai giovani frati minori francescani a Monteluco di Spoleto, nel settembre 2000, è stato pubblicato nel libro Vivere il cristianesimo (Qui l’introduzione al volume dello stesso Luigi Negri)