Dalla presentazione del libro presso il CMC di Milano (giovedì 19 Febbraio 2015)
Io, leggendo il libro degli incontri che don Negri – mi permetto, ci conosciamo da quando eravamo poco più che ragazzini – ha fatto, mi sono subito fermato sul titolo: I Promessi Sposi nostri contemporanei. Don Negri usa una categoria secondo me molto interessante e importante. Non dice moderni, perché se avesse detto moderni sarebbe entrato credo in un ginepraio, visto che ormai siamo in una società postmoderna. Allora mi sono chiesto come il discorso di don Negri possa rispondere a questa domanda: in che senso sono contemporanei? Il mio intervento sarà abbastanza breve, mi soffermo su alcuni punti che ho ritrovato nelle lezioni. Innanzitutto si parte da una premessa molto importante: Manzoni all’inizio dell’Ottocento scrive del Seicento, e dice, Negri, che il Seicento presenta delle caratteristiche non molto dissimili dall’epoca nostra. Dove si troverebbe la somiglianza? In quella che don Negri dice una crisi del cristianesimo, già in qualche modo presente nel Seicento. Tutta la tematica delle istituzioni che noi troviamo nel romanzo, che sono o messe in crisi dal rapporto col potere politico, o conniventi col potere politico (un esempio soltanto, pensate al padre provinciale) mostrano che il cristianesimo è un po’ già minato da quello che, poi, i secoli successivi e il tempo nostro hanno mostrato in modo così evidente. Potremmo anche dire in altro modo: il politico già nel 1600 incrinava o determinava talune scelte che la Chiesa doveva e poteva fare. Non siamo ancora a “Dio se c’è non c’entra con la vita” ma ci stiamo avvicinando. E Manzoni, usando ovviamente altre parole, è colui che focalizza questa tematica in tutto il romanzo.
La seconda osservazione è oltremodo importante perché don Negri sostiene che il protagonista del romanzo è la Chiesa. Definizione che non è facile trovare nei lettori del romanzo, da una parte e dall’altra. Non sto a fare adesso un’analisi di come i lettori abbiano affrontato questo problema, ma sostenere che protagonista del romanzo è la Chiesa vuol dire dare tutta una caratura catechetica al romanzo stesso e anche dare una interpretazione profondissima del romanzo. Don Negri ricorda Mons. Colombo, Don Giussani, e altri sacerdoti che si sono occupati del romanzo, insomma si mette nella scia di quei sacerdoti che hanno letto e voluto parlare del romanzo e interpretarlo, dicendo appunto che il protagonista è la Chiesa. Dunque rileva un fatto importante: è il popolo di Dio protagonista del romanzo, ma Manzoni non è irenico. Manzoni è realista, Manzoni ci fa vedere il popolo di Dio nei suoi aspetti positivi e negativi, come è la vita della Chiesa. Forse vi sembrerà un’osservazione da poco questa, ma è importantissima: pensate al moralismo con cui poteva essere stato letto o è anche stato letto nel corso di questi duecento anni, il moralismo che ha fatto perdere questa idea del popolo come qualcosa di vivo, di presente.
Il popolo, come sappiamo soprattutto dalla catechesi dei Papi di questo ultimo secolo e anche da Papa Francesco, non è quello che non sbaglia, ma dire questo in un romanzo del 1820 era un’avventura assolutamente fuori dall’ordinario. Sostenere questa tesi, che ovviamente è argomentata e raccontata da parte di Manzoni, voleva dire qualcosa di assolutamente nuovo nel momento in cui il libro viene pubblicato. La Chiesa popolo di Dio è protagonista del romanzo, e questo popolo vive nelle contraddizioni della terra. Ma c’è un altro punto importante legato a questo. Il popolo cristiano non vive di una appartenenza ideologica. Questo nel romanzo è chiarissimo. Il popolo cristiano si muove e vive in forza di un incontro. Non è per usare parole che alcuni di noi in questo momento sentono più familiari – pensate cosa dice e cosa ha detto Benedetto XVI su che cosa sia il Cristianesimo – ma è per dire una verità. Nel romanzo i protagonisti, anche qui nel bene e nel male, vivono di incontri che cambiano la loro vita, che muovono la loro vita. Un incontro è qualcosa di imprevedibile, che cambia. Per usare una parola che don Negri usa, e che don Giussani usa – lo ricordo in questi giorni in cui ricorrono i dieci anni dalla morte – non è un incontro sentimentale, non muove semplicemente i sentimenti, ma è quello che don Negri dice una “metànoia”, cioè un cambiamento del cuore, un cambiamento, una conversione della intelligenza; dico intelligenza per evitare che la sottolineatura “cuore” ci faccia cadere di nuovo in un sentimentalismo. L’incontro non è sentimentale, è una metànoia che cambia l’intelligenza.
La vicenda di Lodovico che diventa Fra Cristoforo credo sia emblematica di questo punto di vista. Pensiamo a come Lodovico sia stato allevato e soprattutto agli anni della sua giovinezza in cui il padre, con una operazione tipica della cultura seicentesca, lo fa vivere in una condizione assolutamente astratta: doveva essere un nobile, non lo era, ma doveva in qualche modo partecipare a una vita che sarebbe dovuto essere sua. Questa tema della falsità è presentissimo nel romanzo. Questo incontro, questo cambiamento educa le persone. Cioè chi si lascia prendere dall’incontro rivede e ritrova i criteri di fede dentro le circostanze.
Pensate a Lucia, pensate a Renzo nel rapporto con fra’ Cristoforo, e non solo a loro. Anche nella provvisorietà o meschinità talvolta delle situazioni. Sempre, in qualche modo, la Chiesa porta a cercare, a individuare i criteri di fede con i quali vivere le circostanze. E il popolo di Dio presente nei Promessi Sposi è veramente una comunità. Non mi soffermo adesso sul rapporto tra popolo e folla, Manzoni ne dice cose stupende, ma pensate alla narrazione della vita nel paese di Renzo e Lucia, al rapporto amicale fra alcuni protagonisti, fra Renzo e l’amico che ritrova tornando al paese dopo essere stato a Bergamo, e ad altre circostanze. Esse ci fanno capire la parola forse più importante del romanzo, quella che io ritengo la chiave di volta del romanzo perché chiave di volta del rapporto tra i cristiani, metodo della vita della Chiesa: il perdono. Manzoni lo esplicita benissimo in più occasioni. Anche qui cito sempre fra’ Cristoforo, non perché sia l’unico ma perché mostra con maggiore evidenza queste categorie: la vicenda comincia col pane del perdono e poi è presente in quella pagina drammatica di Renzo davanti a don Rodrigo che sta morendo. Qui Manzoni è di una acutezza e di una sapienza pastorale incredibile, non dice brutto e cattivo, ma «sarà castigo o sarà misericordia», perché il buon Dio comunque è oltre i nostri criteri.
Le pagine della peste sono, a mio avviso ma penso anche per chiunque, pagine di grandissima letteratura che possono stare alla pari di Dostoevskij o dei più grandi narratori dell’ottocento e anche un po’ del Novecento. Quindi Renzo, nel momento in cui è davanti a quest’uomo che gli aveva fatto così male è invitato a perdonare, ma non deve dirlo a parole, il perdono deve essere l’esperienza della vita, gli dice fra Cristoforo.
Ancora due veloci osservazioni: il popolo cristiano non vive per sé stesso. Il popolo cristiano si mostra nelle due dimensioni fondamentali della fede: caritatevole e missionario. Una cosa che dicevo sempre a miei studenti e che mi capita di dire quando racconto un po’ dei Promessi Sposi è che l’Innominato dopo la conversione non diventa buono, diventa caritatevole, che è diverso. Cioè, la bontà è un aspetto, ma fondamentalmente è la carità la molla della sua nuova vita. Altrimenti cadremmo in un buonismo, e non è un romanzo buonista: se sentite dire queste cose arrabbiatevi e consigliate di rileggere il testo. Perché è un romanzo drammatico, profondamente drammatico, e durante tutta la vicenda in cui l’Innominato manda via i suoi e ricomincia una vita, lo fa in forza della carità che ha ricevuto, dell’incontro che ha fatto.
Dicevo caritatevole e missionario. Pensate soltanto a questo grande ossimoro su cui molti hanno lavorato: la “modestia guerriera” di Lucia. Lucia è uno dei personaggi che parla di meno nel romanzo, ma come ben sappiamo, nei romanzi veri i silenzi parlano molto di più delle parole. Comunque Lucia è l’esempio evidente di questa carità e missionarietà. La notte dell’Innominato è un’evidenza incredibile da questo punto di vista: questa ragazza che non sa dov’è, non sa con chi parla, sicuramente sa che è uno che potrebbe accopparla da un momento all’altro – anzi sarebbe stato normalissimo per quei tempi – ma ha il coraggio di dirgli quelle parole che gli dice, che per lei sono la sua assoluta esperienza quotidiana.
Certo, nel romanzo c’è anche il male: il male non è mai dimenticato, perché sarebbe un’astrazione, ma, come dice don Negri in una lezione, «il male è giudicato» perché fa parte dell’esperienza cristiana.
Finisco. Il soggetto è il popolo cristiano, la persona è al centro di tutto il cammino umano, con la grande caratteristica che ha la persona umana, quella della libertà. Pensiamo alle pagine legate alla vicenda della monaca di Monza, alla sua educazione, agli errori educativi, al padre e anche alla successiva incapacità di essere libera. Il dramma di Gertrude è questo, Testori l’ha capito benissimo e ha messo in evidenza in modo fantastico il tema della non-libertà, laddove non c’è un’educazione vera. Anche questo è un filone che nel romanzo è presente − don Negri lo ridice bene – perché la non-libertà vuol dire la soppressione dell’identità e quindi della persona.
Vorrei finire − perché don Negri cita la Redemptor hominis, «Cristo rivela l’uomo all’uomo» − con una considerazione che mi ha sempre colpito, perché nel 1825, 200 anni fa, il giovane signor Alessandro Manzoni, pubblicando un pamphlet di carattere politico-filosofico (La morale cattolica), scrive nella prefazione: «Il cristianesimo rivela l’uomo all’uomo».
Lo scrive 180 anni prima di Giovanni Paolo II! Manzoni, un uomo che sicuramente era un cristiano ma non certo un santo, viveva profondamente l’esperienza cristiana, e nel 1825 non era il vecchietto un po’ rimbambito che vediamo in tante iconografie. Aveva meno di 40 anni e ha il coraggio di scrivere questa frase perché è la sua esperienza umana.