
Pubblichiamo, in occasione della ricorrenza del cinquantatreesimo anniversario dell’ordinazione sacerdotale di mons. Luigi Negri (28 giugno 1972), ampi stralci di una meditazione sul sacerdozio tenuta al clero della diocesi di San Marino-Montefeltro (10 giugno 2005).
La vocazione del sacerdote è la vocazione certamente di guida della comunità ecclesiale, di rappresentanza di Cristo, ma, insieme, secondo l’insegnamento di san Carlo Borromeo, è la via della santificazione, la via della immedesimazione sempre più profonda con il mistero di Cristo senza poter separare la carità pastorale dalla carità verso Cristo.
La carità pastorale è l’espressione della carità verso Cristo, altrimenti una carità non alimentata, non rigenerata continuamente dal rapporto totalizzante e singolare del presbitero con Cristo, finisce per essere una tecnica. Una pastorale che non nasca da un impegno di fede con il Signore sarebbe una tecnica, una professionalità priva di cuore come una professionalità normale dell’uomo. C’è, dunque, un’intimità con Cristo. Il prete è colui che deve essere intimo del Signore. (…)
La fede è amare il Signore incondizionatamente; per questo la grande tradizione teologica della dottrina orientale ha identificato il sacerdozio come la prosecuzione nell’esperienza della maternità di Maria. Hugo Rahner, scrivendo sulla ecclesiologia dei Padri, individuava in questo un punto fondamentale. Il prete rende “permanente” la maternità di Maria perché fa nascere il Popolo del Signore che è il Corpo di Cristo come Maria di Nazareth ha fatto nascere il corpo fisico di Gesù Cristo.
Bisogna recuperare la centralità dell’incontro con Cristo. Il centro della nostra vita è in un Altro che ci è venuto incontro e non ci lascia più.
La Chiesa usa i Salmi di Davide per celebrare il Mistero di Cristo. Davide fu crudele e sanguinario (come era tipico dei suoi tempi), fedifrago, etc., ma grande innamorato del Mistero di Dio.
Ci si innamora del Mistero di Dio non perché ci si sente capaci. L’amore per Cristo è un dono: adesso devo chiedere al mio Signore di essere ammesso alla sua intimità.
Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha dato alla Tradizione teologica cattolica un grande apporto fissando in modo definitivo la sacramentalità della Chiesa: Cristo è nella Chiesa, Cristo è un incontro oggi come lo fu per Giacomo, Andrea e Giovanni perché è misteriosamente “legato” al Corpo della Chiesa, cioè è legato all’unità dei suoi per sempre.
Questa unità profonda e sostanziale di Cristo morto e risorto con i suoi esiste perché così ha voluto. Ecco perché si parla di istituzione della Chiesa e dei sacramenti. L’unità della Chiesa non contiene Cristo perché si decide che Cristo è presente, non perché i cristiani intenzionalmente dicono questo, ma perché Cristo si fa contenere dalla fisicità e dalla carnalità del suo popolo. La Chiesa è sacramento di Cristo: Cristo è presente qui ed ora, come amava ripetere Giovanni Paolo II.
Una presenza “qui ed ora” mistica, sacramentale, ma non meno reale di quella fisica. Infatti sacramentale e mistica non si contrappongono a reale, come ci ha insegnato padre De Lubac nel suo Corpus Mysticum (lo studio della teologia e dell’Eucaristia nei secoli VIII-IX quando cominciava la controversia sulla presenza reale). Cristo è presente nella fisicità di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio, come nel mistero del suo Corpo mistico, nel mistero dell’organismo sacramentale determinato gerarchicamente dall’Eucaristia. (…)
Questo deve essere rinnovato ovunque in noi: una ripresa della sacramentalità come orizzonte della vita perché apparteniamo al sacramento di Cristo che è la Chiesa. Rinnovatevi continuamente nell’esperienza della fede e vi rinnoverete nella capacità dell’azione, dell’opera.
Dunque, centralità di Cristo nella vita, recupero della sacramentalità della Chiesa: l’appartenenza alla Chiesa in tutti gli aspetti fino all’obbedienza, al superamento del proprio immediato punto di vista o della valutazione di sé e delle cose per abbracciare un giudizio diverso su di sé e sulle cose. Un giudizio che può essere “tecnicamente” meno adeguato del proprio, ma che si riferisce obbiettivamente al mistero di Cristo. Io abbraccio questa ipotesi su di me diversa da me non perché è più convincente immediatamente, ma perché scaturisce da chi è più vicino a me di me nel mistero e me lo significa, me lo rappresenta perché Dio l’ha scelto.
Il riconoscimento di Cristo nel suo Corpo fa nascere il Corpo, la realtà sociale della Chiesa. Nasce la Chiesa come realtà sociale, la Chiesa come luogo della communio in nome di Cristo che tende a diventare comunione di vita, tendenza a mettere in comune tutti i problemi, dalle risorse spirituali alle necessità materiali. La forza della testimonianza di Cristo, l’esperienza della conoscenza di Lui, mette in comunione l’uno con l’altro. (…)

Preti di CL (tra i quali don Luigi Giussani e don Luigi Negri), Domenica delle Palme, San Pietro, 1979
Attraverso la pratica dei sacramenti siamo come la Vergine Maria, la Parola che pratichiamo genera un popolo e, quindi, lo educhiamo. I preti sono i primi educatori del popolo. La fede donata deve diventare forma dell’intelligenza, forma del cuore. I cristiani devono essere aiutati ad assimilare la fede come principio vitale, assimilare la fede come forma della loro intelligenza. A tale condizione la fede diventa cultura, forma del loro ethos e quindi diventa carità, orizzonte di vita, perciò missione.
Parliamo, dunque, di educazione, unico contenuto dell’ intelligenza della vita, unico affetto del cuore. La fede è forza della vita, che diventa riconoscimento della vocazione e attuazione della stessa nel mondo, nel lavoro, nella professione, nella testimonianza del modo di vivere il tempo libero, nella generosità del servizio e del volontariato. Non dobbiamo smettere di essere educatori del nostro popolo, forma gregis, diceva san Carlo Borromeo. Siamo preti per dare a questo popolo l’esperienza della maturità cristiana e l’esperienza di una novità di vita che si vive e si comunica agli altri e si incrementa in noi e nella Chiesa. Ciascuno deve avere il coraggio di testimoniarla nella vita. Far vivere al popolo cristiano l’educazione ad una vita nuova attraverso la missione. Il mio programma pastorale: che il popolo viva una esperienza di fede reale e la comunichi a tutti, come può.
Il nuovo millennio si apre alla Chiesa come oceano vasto in cui avventurarsi contando sull’aiuto di Cristo. Il Figlio di Dio che si è incarnato per amore dell’uomo compie ora la sua opera in noi, e dobbiamo avere occhi penetranti per vederla e soprattutto cuore grande per diventare strumenti e per riprendere contatto con questa fonte viva che è la speranza, che abbiamo celebrato nell’anno giubilare:
Andate e ammaestrate tutte le nazioni (Mt 28,19).
Le nazioni cominciano a casa nostra, nello spazio delle famiglie, dentro ai giovani che vivono di apparenza e di consumo. La Chiesa deve vivere il suo mandato missionario tra le nazioni, riecheggiando i temi fondamentali della fede, della speranza, della carità.