Come nella Sinagoga di Nazaret

Pubblichiamo la meditazione di mons. Luigi Negri tenuta a Ferrara davanti a un gruppo di amici in occasione del Triduo pasquale del 2016. Di seguito la riflessione per il Venerdì Santo nella quale egli si soffermò in particolare sul tema del male, così come emergeva allora in modo drammatico all’interno della vita sociale italiana ed europea (l’episodio dell’omicidio efferato di Luca Varani avvenuto a Roma il 5 marzo 2016, l’attentato islamista del 22 marzo 2016 a Bruxelles, le pratiche contro la vita nascente e quelle di carattere eutanasico).


Venerdì Santo, 25 marzo 2016, Ferrara

Credo che il tentativo di aiuto che posso offrirvi, per quello che riesco, sia quello di dare un volto di attualità all’avvenimento della morte e della risurrezione di Cristo, che è l’attualità assoluta, per sempre.

Dare un volto all’attualità di questo avvenimento implica anche tenere presente la modalità di comprensione del soggetto in questione, il cristiano; implica cercare di tenere conto anche dell’intelligenza delle domande o della forza dei dolori, delle incertezze, dei dubbi, con le quali il cristiano legge il mistero sempre nuovo della morte e della risurrezione del Signore.

Non c’è dubbio che il lascito o il peso del tempo in cui viviamo è tale che oggi ci costringe a una maggiore e più radicale comprensione. Credo che la maggioranza dei cristiani, di cui non si può non costatare la mancanza di intelligenza, la mancanza di coraggio, abbia ceduto totalmente alla mentalità mondana, la quale implica il rinnegamento di Cristo. Tale rinnegamento è ormai, secondo me, l’elemento statisticamente più diffuso nel mondo cristiano, il quale vive in una situazione di strisciante apostasia da Cristo. Questa apostasia ha una sola possibilità di essere compresa, non di giustificazione: uno rinnega Cristo perché ha timore, ha paura di morire. Si tratta di un momento che ricorda la situazione di paura descritta da Manzoni nel dialogo tra don Abbondio e il cardinale Federico Borromeo.

Siccome purtroppo il mondo è quello che è, così gravemente conciato come è sotto i nostri occhi, e siccome noi partecipiamo, con maggiore o, spesso, minore consapevolezza, a tale mondo, io cercherei di fissare questa mattina questi due aspetti: ciò che ci può avvicinare in modo nuovo a Cristo e ciò che ci può separare da Lui.

Mi auguro per voi che questa separazione non sia per sempre, perché oggi l’alternativa è questa, in quanto noi viviamo in un mondo che può essere vissuto come una singolare forma di introduzione al mistero di Cristo o come rifiuto di esso.

Il tempo di oggi è il tempo di un’inaudita violenza che ormai caratterizza tutti gli aspetti e le dimensioni della vita, compresa quella familiare. È una violenza assolutamente cieca, che per realizzarsi arriva addirittura a contraddire sé stessa: la cattiveria arriva a livelli tali per cui le stesse regole, negative e nefaste che servono per ordinarla, sono negate. Del resto per ammazzare Cristo l’empietà ha contraddetto sé stessa.

Raccolgo soltanto alcune delle terribili suggestioni recenti: il disprezzo della vita così come si è manifestato in quello che è successo, ad esempio, a Roma, ovvero l’omicidio di un giovane compiuto da altri due giovani, un fatto di tremenda violenza accaduto fra gente della borghesia romana, piena di soldi e di ogni cosa, con i genitori dei due assassini che avevano dato tutto e più di tutto ai loro figli; il drammatico disprezzo della vita che deve ancora nascere e che non viene fatta nascere; il disprezzo della vita che fa fatica a spegnersi e, perciò, attraverso l’eutanasia, se ne favorisce la fine; il disprezzo della vita così come emerge, paradossalmente, nella generazione della vita stessa della quale si è preteso di scardinare le procedure che la natura, cioè Dio, ha fissato perché ci fosse il dono della vita, ovvero il dono che Dio dà all’uomo e alla donna, che vivono adeguatamente il rapporto a cui Lui li chiama.

L’intento, durante questa mattina, non è di indicare una serie di letture analitiche; potete farle voi, seguendo chi volete, purché non scegliate delle persone inadeguate per guida. L’intento, al di là di tutte le possibili analisi, è sottolineare come sia indubbio che, storicamente parlando, siamo alla fine. Ci sono stati altri momenti così drammatici nella storia; spesso si ricordano le invasioni dei barbari come uno di questi momenti. Tuttavia, quando arrivarono i barbari non si verificò una situazione così turpe e tremenda come quella di adesso, perché i barbari erano soltanto dei rozzi, non erano dei cattivi, erano dei rozzi perché nessuno li aveva educati. Oggi, invece, siamo di fronte a gente che è stata educata o meglio si dovrebbe dire diseducata; sia quelli che uccidono per le strade sia quelli che si uccidono per le strade. Ci sono stati nella storia dei momenti nei quali è sembrato, ma non per modo di dire, che la società si stesse decomponendo e la Chiesa ha superato tutti questi momenti. Come prima considerazione, però, dobbiamo tenere presente che oggi la vastità del male è totale e di fronte a essa non c’è più possibilità di difesa, neanche nelle realtà nelle quali tante volte, cattolici e non, hanno cercato di rifugiarsi, affermando: «Ma non è così da tutte le parti … qui non è così … la mia famiglia è diversa». Queste non sono ragioni, ma sono circostanze che si spera non vengano meno. Tuttavia, la Chiesa ha ricostruito il mondo non perché si è fidata di quelle situazioni nelle quali il mondo era meno malvagio, ma perché è entrata nel mondo con un mondo nuovo. Non dimentichiamo che è soltanto la fede che rende possibile la rinascita, come è successo di fronte alle orde dei barbari.

Ripeto, però, che la nostra situazione non è come quella del tempo dei barbari, perché adesso assistiamo a una sofisticazione della cattiveria, ovvero si è raggiunto un livello apicale dell’odio.

Dentro questa drammatica situazione, io credo che emerga la grande debolezza del mondo, non solo di quello cristiano. In cosa consiste tale debolezza? Certamente la debolezza del mondo cristiano è la mediocrità, come profeticamente disse Giussani verso la fine del suo magistero: egli diceva allora, parlando a persone del Gruppo Adulto, che la società e la Chiesa avrebbero potuto morire di mediocrità. La mediocrità significa vivere per il benessere, in una situazione di ultimo benessere dove anche il benessere più esiguo a cui si possa aspirare – stare passabilmente bene o addirittura stare passabilmente non troppo male – diventa ciò per cui si sacrifica tutto, ciò per cui si finge di non vedere niente di quello che accade, ciò per cui si chiudono gli occhi e si fa tacere il cuore.

La vita della società e, certamente, anche molta parte della vita della Chiesa sono dominate dai mediocri che, per sentirsi meno mediocri, hanno bisogno di dire che sono eccezionali e che compiono gesti eccezionali; come la recente votazione parlamentare sulla legge Cirinnà, che molti hanno definito un fatto storico; con la stessa leggerezza, i media hanno definito un avvenimento storico, per questo mondo, il fatto che Francesco si sia comprato gli occhiali, andando personalmente in un negozio. È chiaro che in questi contesti parlare di “storico” è ridicolo, fa venire in mente il racconto di Fedro in cui la rana che voleva diventare grande come il bue si gonfia d’aria fino a scoppiare. La storia non si può prendere in giro: ciò che è grande è grande e ciò che non è grande non è grande, anche perché la verità non può essere impunemente violata.

In questo contesto in cui viviamo, noi non possiamo fidarci di quelli che parlano nell’arengo della società e dobbiamo discernere bene anche tra quelli che parlano nell’arengo della Chiesa per trovare coloro dei quali possiamo fidarci, perché la mediocrità è una malattia mortale. Penso a tutto l’orrore che la nostra gente, gente buona, ha ingurgitato e assimilato in questi anni, al punto quasi da non riuscire ormai più a recepire e inquadrare in modo chiaro e sensibile il bene, a discernere quello che è bene da quello che è male.

Guardate ad esempio alla ridicolaggine di quanto è successo a Bruxelles qualche ora dopo quegli attentati tremendi e orrendi che sono accaduti negli scorsi giorni e che erano stati programmati da tempo: le persone si sono messe a scrivere per terra con i gessetti colorati frasi del tipo «bisogna essere ottimisti», come risposta alla tragedia degli attentati. Questo è il modo con cui oggi una società bruciata come quella di Bruxelles reagisce! È meglio piangere e arrabbiarsi, perché almeno nel grido di rabbia e di dolore vi è un minimo di grandezza.

Dunque, di fronte a una violenza che sta arrivando alle estreme conseguenze, perché la violenza del demonio non si ferma e persegue in modo terribile ma coerentissimo quello che ha intenzione di fare, la mediocrità cerca di ridurre la terribilità della cosa, cercando di trovare degli spazi nei quali, nonostante tutto, si possa sbarcare il lunario, come dicevano i nostri vecchi. Ma la battaglia è così grande che tale miopia sarà spazzata via e coloro che non se ne avvedono non avranno nemmeno il gusto di morire per Cristo e per la Chiesa. Infatti, l’unico gusto che si può avere nel morire è quello di morire per una causa grande, mentre quando si vive per sbarcare il lunario non si muore bene.

Se le cose stanno in questi termini, proprio perché viviamo in questo contesto, la questione da affrontare è sempre più radicale: a noi è chiesto di riscoprire le nostre radici. Questa è l’unica sfida che dobbiamo accettare. Se, personalmente, non accogliessi tale sfida per cercare di rispondervi, sarebbe meglio che cambiassi mestiere, ma questo vale anche per tutti voi; se questo avvenisse dovreste cambiare mestiere anche voi! Se pensaste di potere non cambiare il vostro mestiere perché, come la maggior parte della gente del mondo in cui viviamo, voi riteneste che il vostro mestiere possa stare in piedi anche senza la fede, sareste dei mediocri anche voi, in quanto, così facendo, sperereste che vi giustifichi, di fronte alla storia, il fatto che avete fatto bene il vostro lavoro, ma io vi dico che questo non basta.

Questa situazione che viviamo oggi è una sfida sulle radici. Il termine “radici” è la parola che ingiustamente il mondo laicista e anticattolico rispedì al mittente, quando san Giovanni Paolo II la pretese per l’Europa. Gli dissero che l’avrebbero ascoltato l’indomani! Ai presunti magnati del mondo cattolico di oggi nessuno dice più «ti ascolteremo domani», perché non dicendo niente oggi, non potrebbero dire niente neanche domani. Invece, la domanda sulle radici è assolutamente attuale, si gioca oggi: certo, si gioca dentro una realtà che ha duemila anni di storia, la Chiesa; anni che fanno parte della nostra vita, ne costituiscono la ricchezza profonda intellettuale e morale, sono la fonte del nostro vanto storico di fronte al mondo di oggi come a quello di ieri; però la domanda è sull’oggi, su un oggi che, se è chiaramente cristiano, è ricco di tutta la tradizione. Ma questa non ci salva su questo punto, sul quale dobbiamo essere molto leali, ciascuno con sé stesso e con gli altri. Dobbiamo chiederci su cosa poggia la nostra vita oggi e, sicuramente, la nostra vita oggi non poggia su quello che eravamo venti anni fa, sui successi o sugli insuccessi, sulle gioie o sui dolori; è una domanda sulle nostre radici oggi, perché il mondo ha perso le radici e non le ritrova più in questa selva di banalità che costituiscono il discorso laico, molte volte anticattolico e a volte sostenuto anche dai cattolici. Oggi dove è la radice per me che ho perseguito per oltre cinquant’anni il grande compito di insegnare ai giovani educandoli? Dove è la radice per me che da dieci anni sono vescovo? La mia radice deve essere qualche cosa a cui posso dire: «Oggi ci sto, Tu sei tutto per me». Qualche cosa che assume tutto il positivo di questi anni e lo esalta e assume tutto il negativo di questi anni e lo perdona. La storia della nostra vita non può prescindere da quello che abbiamo fatto o non abbiamo fatto. A Cuba Raoul Castro può credere, per la stupidità di quelli che lo hanno messo su un piedestallo, di poter rientrare nella storia senza neanche ammettere di essere un delinquente e un assassino, ma la storia non lo perdona. Verrà il momento della verità. Anche noi abbiamo le nostre magagne, ma ognuno di noi, dicendo a Cristo «ricredo in Te», viene perdonato, non scusato; è una cosa diversa, tanto è vero che il perdono è dato solo a partire da un pentimento. Il perdono di Dio, che avviene in maniera rigorosa e oggettiva nel sacramento della riconciliazione, esige, per potere essere dato dalla Chiesa in nome di Cristo a chi si confessa, che si dica dove si è sbagliato. I padri del concilio di Trento precisarono, come forse ricorderete dalla preparazione alla prima comunione, che bisogna indicare il numero, le occasioni, quante volte, se i propositi fatti di non perseverare sono stati rispettati… Forse era un eccessivo moralismo dei tempi, ma ricordarlo ci permette di capire che il perdono non è l’amnistia: il perdono è una redenzione totale, ma in questa redenzione, è richiesta la consapevolezza del proprio male.

Di fronte alla situazione nella quale siamo chiamati a vivere, se da un lato sono tentato di pensare che sia finita la storia cristiana, dall’altro sono certo che in me essa può essere fatta rivivere solo dalla Madonna, se io però ci sto. Infatti, la Madonna ha vinto a Lepanto perché c’è stata della gente che ha dato la propria vita. Diciamo di sì al Signore, che è la radice del nostro presente e, appunto per questo, è anche la riappacificazione con il nostro passato. Non bisogna dimenticare che l’esigenza della riappacificazione, che può essere avvertita secondo modalità e tempi diversi, è la via che conduce al Signore. Perché uno che non ha la percezione di dover essere pacificato è esattamente nella condizione più prossima per fare fuori Gesù Cristo: quelli che l’hanno fatto fuori sono quelli che non solo pensavano di non aver bisogno di essere pacificati, ma che, anzi, ritenevano di potere stabilire chi fosse giusto e chi fosse ingiusto, in quanto si concepivano come i custodi della legge o i custodi dell’ordine, romani o ebrei che fossero, secondo quella insana alleanza che si determina sempre!

Oggi io ridico di sì, con la consapevolezza che devo ancora accettare che molto della mia vita e della mia storia sia pacificato dal Signore; ma il Signore entra oggi nella mia vita con una profondità nuova, aprendo, di fronte a questa mia vita, al mio cuore, un sentiero nuovo e inedito, come ha detto tante volte Benetto XVI, «il sentiero della vita positiva», e non, come lo chiamava il grande filosofo e amico di Benedetto XVI, Robert Spaemann, «il sentiero polveroso del nulla».

L’umanità oggi è di fronte a due possibilità: o percorrere, come sta facendo da secoli, il sentiero polveroso del nulla o fidarsi di Cristo e percorrere con Lui il sentiero positivo della vita. Ora la macchia terribile, che condiziona anche noi e che può rendere più faticoso il riconoscimento della fede, è che noi viviamo le estreme conseguenze di un mondo malato, un mondo di pazzi, nel quale la radice ultima di questa pazzia porta la gente ad avere più paura della Chiesa che dell’ISIS. Ha più paura della Chiesa perché la Chiesa ha proposto per secoli un ideale che loro non hanno avuto il coraggio di abbracciare, anzi, lo hanno rifiutato con sdegno: hanno creato culture, forme di vita, sistemi politici per eliminarlo. Adesso come fanno? Ditemi come può un epigono del razionalismo o dell’illuminismo considerare il cattolicesimo come l’ipotesi più conveniente? Non possono, psichicamente non possono, e allora, mentre continuano a denigrare il passato cattolico, sono così stolti da non vedere il negativo della presenza islamista. Sono andati alla ricerca dell’islam moderato e hanno dovuto ammettere che non c’è; sono andati alla ricerca del dialogo sacrificando totalmente la propria identità, come fossero anfore vuote, scoprendo che questo dialogo agli altri non interessa minimamente. Sono così illusi i nostri cattolici, oggi, che pensano che il dialogo vissuto così sia importante per i musulmani; ma non è vero! Non interessa e può al massimo essere usato dai mussulmani per cercare di rendere meno dura la propria vita là dove sono in minoranza, perché nel momento in cui diventano maggioranza la vita diventa dura per gli altri e del dialogo nessuna traccia!

Noi possiamo riappropriarci della radice che ci costituisce nell’attualità che viviamo perché il tempo che passa nella nostra vita personale, come nella vita del mondo, non distrugge Cristo e nessun male di oggi, per brutto che sia, può superare il male che hanno fatto a Lui. Lo hanno ammazzato ma, allo stesso tempo, così si è scritto, in questo modo, l’inizio della grande pagina della vittoria di Cristo nel mondo, il quale non finirà se non bene (leggete a riguardo Il padrone del mondo di Benson).

Attenzione che noi possiamo recuperare Cristo solo nella assoluta concretezza e storicità del suo essere dentro la Chiesa. Per questo, parlare di Cristo senza parlare della Chiesa è fondamentalmente equivoco. Per questo parlare di Cristo, ma tradurlo immediatamente in termini pietistici e moralistici, non solo non è significativo per gli altri, ma non lo è neanche per noi. Il cristianesimo non è un’attività, ma un logos che si incarna, è un mondo nuovo che si incarna con tutte le sue connotazioni, anche quelle negative; il cristianesimo non è identificabile con l’occuparsi dei poveri, se non come conseguenza; non può essere ridotto al farsi carico di tutti i limiti della vita umana, soprattutto di quella materiale, pensando di essere in grado di risolverli, atteggiamento assolutamente irrealistico. Il cristianesimo è un mondo nuovo nel mondo, che si fa carico dell’umanità di chi crede come di chi non crede, e porta quindi il peso delle sofferenze proprie e del mondo. Gesù Cristo non è un ammortizzatore sociale, come la redazione di Studi Cattolici ha intitolato l’ultimo mio pezzo sulla presenza di una eresia cristologica che circola nella cristianità oggi; Cristo ridotto a spunto di iniziative psico-affettive o Cristo come fondamento dell’impegno sociale. Cristo non è un ammortizzatore sociale e, dato e non concesso che si possano fissare delle prossimità a Lui, bisogna essere molto rigorosi teologicamente, come purtroppo spesso non lo si è più. Cristo ha una sua centralità assoluta: al centro del cristianesimo c’è Cristo, solo Cristo, mentre oggi nella predicazione, al centro con Cristo è presente un affollamento di altri aspetti quali i poveri, le persone con handicap, i terremotati, le donne ecc. Così il cuore di Cristo è offuscato e viene a mancare la percezione che Cristo è un unicum e che la fede ci chiama a partecipare a questo unicum, mentre le conseguenze ciascuno è chiamato a trarle come può. Una cosa sola è necessaria: guardare al mistero di Cristo e aprire il nostro cuore e la nostra vita, la quale diventa, così, un inno. C’è una letizia irresistibile della fede che, non a caso, è arrivata a esprimersi anche nel canto, mentre il cristianesimo oggi è un cristianesimo triste, da funzionari di partito che non cantano e, finite le riunioni, vanno via perché hanno paura di incontrare quelli che non devono incontrare, mentre il vero cristiano va in giro per il mondo con la speranza che tanti si accorgano di lui e gli chiedano di poter partecipare alla sua vita. Purtroppo, questo rischia di non esserci più, ma questa dinamica inizia a rifiorire là dove la Chiesa ha ricominciato ad avere una sua maternità e, allora, la gente si sente accolta, non perché va al supermercato degli affari religiosi che si chiamano sacramenti (che vengono a chiederci come se ne avessero diritto secondo la modalità e i tempi che vogliono), ma perché entra in una comunità o in un popolo accogliente, dove nasce una corrispondenza buona e semplice che canta a Dio le sue lodi attraverso la stessa vita.

Dunque dove sono le radici?

«Si recò a Nazaret dove era stato allevato, entrò, secondo il suo solito, di sabato nella Sinagoga e si alzò a leggere» (Luca 4, 16).

Infatti, nella Sinagoga qualunque maschio ebreo, anche se non aveva studiato alla scuola rabbinica, poteva leggere e commentare i passi della Sacra Scrittura scelti da lui. Cercarono subito di ridurre la proposta radicale che Cristo era, non che faceva, secondo quelli che erano i loro interessi. Dal momento che Egli era uno di loro e abitava nello stesso paese, tutti lo conoscevano; quindi, la sua proposta esigeva che essi scavalcassero quello che già sapevano di Lui, mentre la tentazione fu di farlo rientrare a forza dentro a quello che conoscevano di Lui. Volevano che facesse quello che loro desideravano. Ecco, noi siamo tutti i giorni della nostra vita e, più che mai adesso, nella Sinagoga di Nazaret, e non è un modo di dire, perché, o siamo nella Sinagoga di Nazaret e uno viene a dirci che è il Figlio di Dio, o siamo finiti e l’esecuzione è soltanto rimandata.

È morta, qui a Ferrara, una ragazza universitaria che studiava architettura: ha fatto la maratona ed è morta improvvisamente di una malformazione cardiaca di cui nessuno si era accorto. Allora un gruppo di studenti, attraverso un mio prete, mi ha chiesto di dire una Messa per questa ragazza e io ho acconsentito, scegliendo di farlo nell’ora di una Messa già in programma nella cattedrale. Sono venuti anche i genitori. Ho detto loro, durante l’omelia, che queste cose sono assolutamente incomprensibili, irrazionali e ingiuste, umanamente parlando, ma anche che questo tragico avvenimento non è la fine di tutto; infatti, questo triste evento non rivela soltanto il disastro umano, fisico, affettivo, familiare, ma rivela anche un’altra cosa perché c’è Cristo e, solo perché c’è Cristo, il male è vinto. Quel Cristo che la ragazza amava e riconosceva avendo creato una certa storia nella sua vita; quel Cristo che avrebbe pensato di trovare alla fine di una vita vissuta per bene e che, invece, l’ha chiamata prima del tempo. Questa consapevolezza, nella sensibilità del popolo cattolico, rischia di non esistere più perché esiste una forte attenuazione: oggi il cristiano è uno che ha una disperazione attenuata, mentre occorre ribadire che Cristo salva anche quella ragazza e il modo con cui questa ragazza è stata ripresa da Lui può sembrare anche orrendo, ma il dolore non deve essere l’ultimo sentimento provato. Se non fosse così, non riuscirei più a parlare, non riuscirei a pronunciare nessuna parola, perché il parlare coincide, per me, con la comunicazione della mia fede. Ora, questa coscienza cristiana è ormai così estranea ai più che un gruppo di studenti dell’università ha redarguito quelli che avevano promosso questa Messa, dicendo che erano degli sciacalli e che utilizzavano una tale tragedia per fare proselitismo per la loro setta.

Ecco, io voglio dire una cosa semplicissima: ora è come se noi fossimo a Nazaret e non c’è niente del nostro passato buono che renda meno radicale la proposta di Gesù, come non c’è niente del nostro male che renda impossibile questa proposta. Nella Chiesa tutti devono arrivare a questo punto e tutti devono sempre riprendere da questo punto. Il punto da cui riprendiamo non ha come formulazione il termine “io” ma la stessa modalità di Nazaret: siamo seduti nella Sinagoga ed entra qualcuno che dice “sono io”. Questo era vero quando io vivevo l’esperienza di GS, negli anni del liceo e dell’università. Don Giussani aveva capito che non bastava più l’organizzazione dell’associazionismo cattolico e pensò di fare un’altra cosa, ma non sapeva cosa fare e, quindi, invece di fondare un’organizzazione, pensò a qualche cosa di diverso: per centinaia e migliaia di giovani fu l’avvenimento della vita, quello per cui cambiarono l’esistenza (ad esempio, io, che pensavo a tutt’altro, mi sono fatto prete). Noi in realtà non siamo né garantiti dal nostro bene, né delusi dal nostro male e chi si iscrive all’una o all’altra di queste categorie non sa ancora cosa sia la fede, perché la fede è essere lì nella Sinagoga di Nazaret e sentirsi dire da Lui:

«oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi» (Lc 4, 21).

Questa è stata la prima grande proclamazione della divinità di Gesù Cristo, il quale ha attribuito a sé l’immagine del Messia secondo la formulazione che ne aveva dato Isaia, un’immagine del Messia formulata in termini insuperabili tanto che in seguito la Chiesa l’ha subito attribuita a Cristo. Isaia è stato, infatti, il grande autore che la Chiesa ha usato per capire, sempre meno astrattamente, il mistero del Signore. Noi siamo lì, come allora nella Sinagoga, davanti a Lui, non difesi dal nostro bene. Guai se il nostro bene ci difende da Lui, perché vorrebbe dire che è un bene diabolico. Allo stesso tempo non siamo eliminati da questo consorzio nuovo dai nostri errori.

Il triduo pasquale, già nella sua formulazione così assolutamente limpida, come dicevo ieri alla messa in Coena Domini, afferma che il cristianesimo rimane nel mondo grazie al pane e al vino consacrato, e rimane nel mondo perché c’è gente che per funzione deve amministrare bene i sacramenti, in modo che i fedeli, attraverso i sacramenti, possano incontrare Cristo. Comunque l’eucaristia e l’autorità sono i fulcri della Chiesa e, solo in secondo luogo, la Sacra Scrittura. Quindi il cristianesimo è Gesù che muore e risorge per noi, che fissa come luogo della permanenza la Chiesa e come punto assoluto della permanenza l’eucarestia. Questo lo riprendiamo oggi, il venerdì Santo, che, del mistero di Cristo, è l’ora della sofferenza, seguita attraverso l’uso opportuno della Via Crucis.

State attenti che il cristiano nel mondo di oggi rischia di non essere nessuno, di non avere identità perché di fatto non riesce a fare bene tutto il male che potrebbe fare, cioè non ne avverte la drammaticità, e fa il bene in modo così sciatto che non ci prova nessun gusto, come diceva sempre il card. Biffi, una delle intelligenze più lucide degli ultimi cento anni della Chiesa italiana. Da questo punto di vista, per non cadere in questo rischio, occorre tenere presente quello che è il punto veramente radicale, come viene ben espresso nel film The Passion, nel dialogo tra Cristo e la Madonna, durante la passione. Quando la Madonna guarda il Signore, mentre porta la croce, devastato dalle percosse, e Lui, a sua volta, la guarda, c’è uno scambio di sguardi intenso che termina, da parte del Signore, con un saluto perché non si sarebbero più rivisti e con le parole «vedi Madre, io faccio nuove tutte le cose». Certamente il Venerdì Santo è il giorno della passione, ma essa già vibra dell’esito inaspettato, umanamente parlando, dell’esito positivo della risurrezione. Esito che in un certo senso era inaspettato anche per Gesù, perché sia ben chiaro che la certezza di essere il Figlio di Dio non gli ha reso meno acuti i chiodi o meno dura la sofferenza! E neanche, credo, meno aspra l’arrabbiatura per avere dato la propria vita per un popolo che lo mandava a morire al posto di Barabba! Quindi l’aspetto importante del triduo, come abbiamo iniziato a sottolineare con queste brevi riflessioni, consiste nell’aiutarci a dare concretezza e attualità al nostro incontro con Lui, nella Sinagoga di Nazareth, dove «oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi» (Lc 4, 21).


Qui il testo in PDF


L’intervento di mons. Luigi Negri durante la Via Crucis di Comunione e Liberazione del 25 marzo 2016
La meditazione di mons. Luigi Negri in occasione del Sabato Santo, 26 marzo 2016 
L’omelia della Santa Messa di Pasqua, 27 marzo 2016, Comacchio