«Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt, 18, 20)
Pubblichiamo la lezione tenuta da mons. Luigi Negri a un gruppo della Fraternità di Comunione e Liberazione, il 25 ottobre 2014, a Milano. Di seguito i podcast delle tre parti nelle quali essa è stata suddivisa con i testi delle relative trascrizioni.
Nella prima, commentando alcune preghiere della liturgia ambrosiana, mons. Negri sottolinea il profondo nesso tra storia ed eternità: «la vita eterna è la pienezza della nostra vita di oggi che lentamente e inesorabilmente cresce e poi avrà un compimento assolutamente inaspettato e imprevedibile come forma. Nella discontinuità della morte c’è una continuità profonda tra la storia e l’eternità».
Nella seconda parte, mons. Negri evidenzia come il cristianesimo, in particolare nell’esperienza vissuta all’interno del Movimento di Comunione e liberazione, a partire dagli anni del liceo, sia la storia di un’amicizia che ha origine dall’iniziativa del Signore: «l’amicizia del Signore verso di noi che ci invita ad essere suoi amici “non vi chiamo più servi ma vi ho chiamato amici” (Gv. 15, 15)».
Nella terza parte, viene chiarito come dalla fede nasca una cultura nuova, fondata su una capacità di giudizio che matura nella vita della comunità ecclesiale e attraverso l’azione missionaria che ne scaturisce: «Un’amicizia che diventa cammino. Noi abbiamo amato andare a scuola, andare all’università, abbiamo amato incontrare la gente, abbiamo amato sentire le prime possibilità di prospettive vocazionali, abbiamo sentito interesse alle vicende della vita personale e sociale e non abbiamo sentito nessuna estraneità verso niente di quello che accadeva».
In fondo a questo articolo è possibile ascoltare l’intera lezione anche in un unico podcast.
La liturgia ambrosiana: eternità e storia (prima parte)
Dunque io intendo dare un contributo al vostro cammino di fede e di carità, in questo momento di passaggio dal compiersi dell’anno liturgico all’inizio del nuovo anno liturgico, con l’Avvento. Perché non si deve essere mai formali allora sarà anche un tentativo di comprendere il momento che la Chiesa e, sullo sfondo, la società vivono, non tanto con la preoccupazione di essere analitici dal punto di vista scientifico, anche perché normalmente scientifico vuol dire opinionale, cioè scaricare sull’oggetto in questione, sia esso la Chiesa o la famiglia, le proprie opinioni, facendole passare per scientifiche. Intendo leggere il momento, certamente non facile che la Chiesa passa e che la società vive, come il tentativo di leggere una sfida, perché sono le sfide, le circostanze in cui riceviamo sfide che sembrano imponenti, che sono imponenti, quelle circostanze inevitabili a cui Giussani attribuiva un valore fondamentale dal punto di vista pedagogico.
Inizierò evocando due punti della nostra liturgia ambrosiana. Il primo è un’orazione dell’ora media della Prima settimana: «Dio Padre santo, che dal fianco aperto del Crocifisso hai dato i sacramenti della purificazione e della vita e dalla sua immolazione hai effuso sui figli lo Spirito, fa’ che le nostre azioni rifulgano della tua luce di grazia, ed eleva la Chiesa come splendente segno tra i popoli». E un’altra, non meno imponente, secondo me: «O Dio, che hai edificato sulla pietra la nuova Gerusalemme, rendila pura e lieta col fiume di grazia che sgorga dal trono dell’Agnello e custodiscila contro ogni violenza; mentre le umane certezze vacillano, intatta la tua Chiesa rimanga, tabernacolo del tuo incontro con gli uomini e segno imperituro di salvezza al cospetto dei popoli».
C’è una profondità, c’è una ricchezza, c’è un realismo in questa liturgia i cui si esprime e si è sempre espresso il sentimento vero della Chiesa, il giudizio vero della Chiesa, la sensibilità umana della Chiesa. Dobbiamo cercare di comprendere meglio un evento che è accaduto e che continua ad accadere nella nostra vita. Questo è l’orizzonte cristiano, ben diverso da quello di un singolo individuo che reagisce a ciò che accade, andando a prendere i criteri della reazione dal giudizio della mentalità o da un pezzo della mentalità comune. Il giudizio del cristiano è quello di una persona che è immanente all’avvenimento di Cristo, che continua nell’avvenimento della Chiesa. Questo avvenimento di Cristo, che continua nell’avvenimento della Chiesa, si è fatto carne e storia nella vita di ciascuno di noi. Di altro non si può parlare, di altro non si deve parlare, si parla di altro a partire da questo. La dignità degli avvenimenti storici, laici, ideologici, la dignità di ciò che accade attorno a noi, o di fronte a noi, o contro noi (sono forme diverse di un atteggiamento comune) ha valore non in sé e per sé, ma ha valore se viene riportata a questo evento, giudicata a partire da questo evento. È l’evento della fede in noi che cambia la vita, è l’evento della fede che mantiene le sue promesse. La fede mantiene le promesse di Dio e le promesse di Dio sono decisive: «Ecco faccio nuove tutte le cose» (Ap 21, 5). Non dopo la storia, non quando tutti avremo vissuto una vita più o meno miserevole nelle circostanze della società umana e alla fine raggiungeremo il Paradiso. Benedetto XVI ha scritto delle cose straordinarie a proposito di questo modo assolutamente scorretto e non cattolico di concepire la vita eterna: la vita eterna è la pienezza della nostra vita di oggi che lentamente e inesorabilmente cresce e poi avrà un compimento assolutamente inaspettato e imprevedibile come forma. Nella discontinuità della morte c’è una continuità profonda tra la storia e l’eternità. Perché a ipotizzare che l’eternità sia una cosa totalmente diversa dal presente storico c’era già arrivato Platone, con buona pace degli intellettuali cattolici del nostro tempo. Invece percepire che la vita nuova di Dio, che è Cristo morto e risorto, è dentro, freme dentro la vita: mentre «tutto si agita e muove, mentre il Tuo regno, Signore, già viene». Tutto in me si agita e muove, ma ciò che si agita e muove in me è la fede. Se non fosse la fede, sarebbe una menzogna. Anche se si trovasse il consenso del 99% di tutti gli intellettuali di questo mondo, cattolici e laici insieme. Ciò che muove il mondo è la fede, questa è la vittoria che vince il mondo, la fede, non il progresso tecnico scientifico, non l’affermarsi di una giustizia sociale finora improbabile e sempre più improbabile, date le condizioni in cui la nostra società è costretta a vivere da quei pochi che hanno tutto l’interesse a mantenere le cose come stanno, mentre vanno dicendo che cambieranno tutto. Il movimento di Dio nel mondo è la fede dei suoi; la nostra fede è la vittoria che vince il mondo. Per meno di questo vale la pena ancora dirsi cristiani? Per essere un pezzetto della grande società mondiale? I margini della nostra libertà si riducono progressivamente nel silenzio equivoco di tanti cristiani e anche di tante autorità: val la pena essere un pezzettino all’interno di un mosaico che è stato concepito, realizzato e condotto da coloro che vogliono l’eliminazione della fede? Io vivo questo, cerco di vivere questo. Nella vicinanza o nella lontananza quando penso a voi, anche singolarmente, penso a persone che sono state coinvolte nella grande avventura umana e cristiana della fede. Tutti gli errori non tolgono questo; sicuramente rendono più pesante il cammino. Tutti gli errori diventano materia di una condivisione ma non hanno assolutamente la forza di obiezione alla storia di Dio. Chi fa degli errori della Chiesa o dei cristiani motivo per obiezione alla divinità della Chiesa è laicista nell’animo, e ce ne sono tantissimi. La positività della storia cristiana consiste nell’essere guidata da Dio e Dio è il Santo, è il Santo in mezzo a noi.
La liturgia ricorda la storia cristiana, la storia della Chiesa e del cristianesimo. La liturgia più antica, come la nostra di Milano, ricorda l’evento. La liturgia di Ambrogio pesca direttamente dalla grande tradizione della Chiesa orientale. Ditemi voi se queste preghiere che ho richiamato non affermano proprio che ciò che viene prima nella vita è la storia di Cristo e poi tutto il resto. Non ci sono tutte le altre cose che devi tentare di risolvere e poi sullo sfondo Cristo. C’è Cristo, c’è l’evento della novità che cresce e, dentro questa novità che cresce, ci sono le resistenze e anche le grandezze, le aperture.
L’amicizia del Signore verso di noi (seconda parte)
Allora la storia. Io ho meditato molto sul fatto che la storia per noi è un’amicizia, l’amicizia del Signore verso di noi che ci invita ad essere suoi amici «non vi chiamo più servi ma vi ho chiamato amici» (Gv. 15, 15). Il termine amicizia è diventato con l’andar del tempo così equivoco che quasi non lo si usa più, mentre è uno dei termini più cristiani, più forti. L’amicizia adesso è pensata al massimo come un’espansione soggettiva, emozionale, affettiva, diventando così un’espressione della soggettività. Ma tutto adesso è un’espressione della soggettività; l’amore non è un’espressione della soggettività? Il lavoro non è un’espressione della soggettività? Il padrone del mondo è il soggetto, che poi diventa servo di un soggetto più grande che si chiama demonio. Invece la parola amicizia coinvolge immediatamente tutta l’oggettività della questione: siamo amici suoi e per questo siamo amici uno dell’altro. L’amicizia di Dio con gli uomini, attesa e intuita nel chiaro-scuro delle profezie, tradita nel tradimento della vita del popolo, ripresa da quella volontà di ricominciare segnata dalle grandi figure profetiche. Ma per noi, dico noi che siamo qui, la realtà della fede non è stata un’amicizia? Innanzitutto un’amicizia con noi stessi. L’incontro con sé stessi è stato l’aspetto iniziale ma determinante del nostro cammino di fede. Nel mio caso si raccordava ad una bellissima storia di fede che avevo incominciato nella tradizione della mia famiglia e invece, dopo di me, molte generazioni hanno rifatto la stessa esperienza, molte volte venendo dal nulla, come spesso diceva don Giussani. Si sono incontrati con sé stessi. Ma dopo di me, tanto dopo di me, questo flusso di amicizia, che non è finito, ha saputo recuperare e far camminare i figli che avevano alle spalle l’effetto Cernobyl. Ricordiamoci che Giussani è stata l’unica personalità imponente della cultura universale a porre il dito sulla questione dell’effetto Cernobyl, non tanto nell’aspetto fisico, ma nell’aspetto spirituale e morale che aveva ben preceduto la fuga della radioattività. L’amicizia di Cristo ci è arrivata attraverso un’amicizia che ci ha reso amici a noi stessi e, allora, abbiamo capito che la vita non era mangiare, bere, vegliare, divertirsi, studiare, che non era nessuna di queste cose, ma era tutte queste cose necessariamente andando a un livello che le precedeva tutte e le sorpassava: il problema del senso, il problema del destino e quello del cuore. Il problema delle grandi esigenze positive del bene, del vero, della bellezza. Vivere partendo da queste esigenze e perciò investire di questo desiderio, di questa ricerca il mangiare, il bere, l’andare a scuola, l’avere degli amici, l’avere interesse per una materia particolare. Parlo di questi aspetti perché ho scoperto me stesso nella vita concreta della scuola e quindi questi erano gli interessi di un ragazzo normale di quell’età.
Riscoprire Dio. Si può scoprire Dio, se Dio si fa scoprire e Dio si fa scoprire nell’annunzio cristiano della Chiesa; si può scoprire Dio, se prima si è scoperto l’io, altrimenti il Dio, il Cristo, di cui si parla è, come diceva Claudio Chieffo, «un Cristo di plastica». L’amicizia ha cominciato a farci sentire familiare questo dire la parola Dio con tutta la densità della domanda, con tutta la densità e la mordenza del cammino. Quando hanno incominciato a dire che noi eravamo un movimento, dando alla parola un’immagine strategicamente pastorale, lontanissima da quello che don Giussani voleva fare, per noi era chiarissimo cosa era il movimento: era il movimento della nostra vita in cui esistevano anche tutte le strutture organizzative, che Giussani cambiava ogni anno per rendere più evidente la natura dell’incontro di ciascuno di noi con noi stessi e di noi con Lui, di noi con Cristo. Un movimento della vita in cui ognuno di noi ha cominciato a sentirsi chiamato a diventare responsabile. Questa è la libertà e l’abbiamo scoperta, la mia generazione più di altre, come la possibilità di vivere bene la responsabilità verso sé stessi. La responsabilità verso sé stessi è la responsabilità verso il proprio cuore, verso questo fascio di esigenze indistruttibili. Dopo tanti anni, papa Giovanni Paolo II ha parlato di un «cuore annichilito ma non distrutto»; annichilito da tutte le devianze e i deliri della modernità, della cultura e della ideologia moderna; annichilito ma non distrutto così che a questo cuore Cristo può essere ancora annunziato dalla Chiesa. Ora dentro questo camminare, questo cominciare a muoversi, questo agire con un interesse nuovo, questo vivere la vita di tutti i giorni con un interesse nuovo, come emerge tante volte nei volti di quelli che vivono questa esperienza, è questo interesse che polarizza tutti gli altri interessi e dà valore a tutti gli interessi. Questo interesse, che polarizza tutti gli altri, può permanere anche se uno non riuscisse a realizzare tutti gli interessi e certamente non si sente perciò sconfitto perché non riesce ad essere felice secondo la mentalità del mondo.
Così sto arrivando al cuore di quello che viene indicato come ‘il carisma di don Giussani’. Dentro questo movimento, mentre siamo nel movimento, accade una cosa incredibile, che questa amicizia, che questa compagnia comunica una cosa più grande di lei, ma non una cosa oltre lei nel senso che non c’entra con lei: «dove due o tre sono riuniti nel mio nome mio, lì sono io in mezzo a loro» (Mt, 18, 20). Sembrerebbe quasi che non si possano più dire queste cose, perché anche nella Chiesa, a tutti i livelli, sembra si stia rinunciando a ricordare questa dinamica profonda dell’esperienza cristiana, forse per potere essere tranquilli in quell’ebetudine in cui sta crollando il mondo cattolico. Cristo è una cosa diversa dai due o tre che si incontrano, ma è dentro il gioco dei due o tre, è come se la loro faccia si aprisse, la loro compagnia si aprisse e senza rinunciare in nulla alla compagnia, dentro questa compagnia, prendesse corpo il Signore. Gesù Cristo lo abbiamo incontrato così. Dopo abbiamo capito che lo avevamo già incontrato nel sacramento del Battesimo, della Cresima e che l’avremmo continuato ad incontrare nella vita sacramentale della Chiesa, nella vita di comunità di cui del resto questa amicizia desiderava solo una cosa, esserne parte. Abbiamo incontrato l’amicizia con Cristo attraverso l’amicizia con Giussani, partecipando in modo vibrante a un momento di Chiesa e desiderando, quindi, diventare a titolo pieno Chiesa. In una delle prime pagine scritte da lui, mentre era in corso il Vaticano II, egli rispondeva così alla domanda “che cosa rende presente il cristianesimo nel mondo?”: l’unità sensibile dei suoi nell’ambiente e l’unità con il vescovo e con il papa (1963-64). Ben prima che la Lumen gentium indicasse la parola chiave: sacramentalità, la Chiesa è sacramento di Cristo, il popolo è sacramento di Cristo, lo contiene sacramentalmente e lo rende presente realmente, «dove due o tre sono riuniti nel mio nome mio, lì sono io in mezzo a loro». Voi capite che rimane Giovanni, Alfio … l’intelligente, lo storpio, rimangono tutti
La comunità è un insieme che è caratterizzato da grandezza e da povertà, ma in fondo ciò che la comunità ha fatto incontrare a me è il mistero di Cristo e da questa comunità vissuta ho percepito che la mia vita trovava finalmente la sua direzione giusta. Meglio e più profondamente se tutta la mia vita era una domanda, quell’amicizia era la risposta alla domanda. Quindi sono stato invitato dentro ad una compagnia che mi faceva verificare ogni giorno che Cristo era la risposta ai problemi della vita. Non c’è risposta meno interessante per l’uomo che una risposta ad una domanda che non si pone più. Il cristianesimo di oggi: il mondo pensa a tutto meno che al problema del suo destino. La Chiesa, quando va bene, parla di Cristo come destino, ma le due realtà non si incontrano. Cristo è «la via, la verità e la vita». Noi nell’impeto della nostra adolescenza e della prima giovinezza abbiamo avvertito che era la questione della vita: rendersi conto concretamente che Cristo non mentiva, rendersi conto concretamente che affermare la Sua presenza nel mondo voleva dire avere caro la sua Chiesa, il suo popolo. Vivere la nostra vita di tutti i giorni dentro questa compagnia ecclesiale di cui la nostra piccola e scalcagnata comunità ne è parte, come diceva Cilla (Cilla aveva più il senso del Movimento di tanti che oggi ne parlano). Cilla non aveva bisogno di dire che la sua comunità non era scalcagnata, anzi lo diceva, ma con la libertà suprema con cui si può dire: “è una comunità scalcagnata ma qui c’è Dio”. Il moralismo farebbe dire: “è scalcagnata perciò non c’è Dio. Cambiamola completamente”. Nel nostro cammino di fede, la comunità ci è venuta incontro come il luogo dell’incontro fra la nostra domanda di senso e la presenza del senso vivo perché il senso della vita è una persona: «Io sono la via, la verità e la vita». Non io vi insegno cosa sia la via e la verità, come avrebbe potuto fare un qualsiasi maestro di etica, ma «Io sono la via la verità e la vita» e «chi mi segue ha la vita eterna e il centuplo quaggiù». Credo che don Giussani abbia ripetuto alla nostra generazione migliaia di volte questa frase: «chi mi segue ha la vita eterna e il centuplo quaggiù» (cfr. Mc 10, 29-30). Quindi questa amicizia si è animata della grande proposta della vita: verificare che Cristo è veramente il redentore dell’uomo e del mondo e il centro del cosmo e della storia. Credo che voi avete sentito in diretta l’esplosione di corrispondenza fra Giussani e Giovanni Paolo II su questo tema: Cristo redime la storia, redime me adesso, è il centro della mia vita e, siccome l’uomo è il centro del mondo, redime la storia. L’uomo lo è comunque, anche quando è un cretino e travolge il mondo con la sua cretinità. L’uomo è un punto particolare aperto all’universale.
Ho conosciuto migliaia di persone, generazioni e generazioni che hanno fatto questa esperienza. La continuità del movimento è uno dei miracoli più grandi a cui la bontà del Signore mi ha fatto assistere e non è ancora finito. Ovvero un’amicizia che ci rivela Cristo presente sacramentalmente tra di noi: se togliamo il “noi” non c’è più Cristo, ma se togliamo Cristo siamo una banda che fa la fine di tutte le bande; può avere dei momenti in cui ha un grande successo e si afferma sugli altri, ma poi è destinata inevitabilmente a finire. Senza di noi non c’è Cristo, ma senza Cristo non ci siamo noi. Senza Cristo non si può dire questo noi così denso, pieno di bellezza, di verità, di gioia e anche di fatica e di dolore, perché la vita rimane dura; infatti la presenza di Cristo non elimina le fatiche, ma conferisce a tutto ciò che viviamo un senso umano di profondità e di apertura. È un umanesimo.
Dalla fede una cultura nuova (terza parte)
La fede crea un umanesimo, una cultura e una civiltà. Nel libretto rosso Tracce di esperienza cristiana, che adesso è assemblato ne Il cammino al vero è una esperienza, anno 1959-60, Giussani nel capitolo cultura scrive esattamente questo: «la comunità crea inesorabilmente una cultura e una civiltà». La cultura non esprime in maniera automatica la fede. È un tentativo perché ogni cosa che nasce nella storia è un tentativo. Tuttavia il tentativo che nasce dalla fede ha una possanza, una forza che poi la storia ha documentato perché la civiltà nata dalla fede cattolica in occidente non è ancora stata superata da nessun’altra forma di cultura e di civiltà, con buona pace di tutti. Siamo grati a Benedetto XVI anche per la profondità e l’equilibrio con cui ha riscoperto il valore della cultura occidentale nel discorso di Regensburg, distrutto dai suoi collaboratori.
Un’amicizia che diventa cammino. Noi abbiamo amato andare a scuola, andare all’università, abbiamo amato incontrare la gente, abbiamo amato sentire le prime possibilità di prospettive vocazionali, abbiamo sentito interesse alle vicende della vita personale e sociale e non abbiamo sentito nessuna estraneità verso niente di quello che accadeva. Non è mai successo che accadesse qualcosa nel mondo che non ci chiedessimo che cosa vuol dire, che cosa significa, non in astratto ma “cosa significa questo per la mia fede?”. Tutta quella potente capacità di revisione, che non aveva valore assoluto per quello che produceva, ma per il movimento che si metteva in moto, era una cosa essenziale. Rivedere le vicende della scuola, gli interessi della vita universitaria, la realtà sociale e politica dal punto di vista della novità cristiana che avevamo incontrato e stavamo verificando. La parola verifica, meno straordinaria, anche linguisticamente, è la parola più determinante della nostra storia. Diventare veri. Come diventiamo veri? Capendo, verificando che Dio è vero, che Cristo è vero. Come lo verifico? Tante volte Giussani diceva così: se la gioia è più gioia, se l’amore è più amore, se il lavoro è più lavoro, se il dolore è più dolore, se l’amicizia è più amicizia… se, affrontando e vivendo la realtà della vita e della storia secondo la certezza della fede, la vita rivela una profondità ignota e un destino ignoto. «Quello che voi adorate senza conoscere io ve lo porto». Me lo ricordava ieri sera il parroco di Seregno, allora coadiutore, il volantone sul discorso di san Paolo all’areopago nacque alla fine di un dialogo tra don Giussani e Claudia Mori con un gruppo di duecento ragazzi della parrocchia di Seregno. C’è qualcuno che pensa che affermare con forza la nostra posizione è condizionare in modo negativo la coscienza degli altri. Il proselitismo, che adesso viene indicato come qualcosa da cui guardarsi, l’ha iniziato San Paolo.
Ecco diciamo la parola decisiva: noi abbiamo fatto questa esperienza nella missione. La parola decisiva sul piano teologico, prima, e metodologico ed educativo, poi, è la parola missione. Cioè la comunicazione della verità che vivo a te, perché tu hai bisogno della verità come ne ho avuto bisogno io e, siccome, l’ho trovata, l’unica cosa che posso fare è metterla in comune con te. Poi farai quello che vuoi, certamente non perderò il tempo a importela. Ma se io, per rispettare la tua coscienza – e poi cosa diventa questa coscienza che io rispetto, quasi niente in me, non so in te –, … perché non dire niente alla persona che ti passa accanto può essere estremamente comodo. La missione è l’inesausta capacità di investire la vita della presenza di Cristo; vuol dire indicare alle persone che incontro che c’è un luogo. L’annuncio, la predicazione finiva sempre con l’invito a entrare nella realtà della Chiesa. Addirittura i primi documenti della vita cristiana segnano i numeri di quelli che si convertivano, non perché fossero importanti i numeri, ma perché era importante capire ciò che era successo: la comunicazione di una vita che incontrava la libertà di chi accettava di coinvolgersi.
Io credo che la questione determinante sia non perdere il senso della missione come l’esperienza fondamentale della Chiesa. Del resto quando Giovanni Paolo II riaprì il discorso sulla missione disse che la missione è l’autorealizzazione della Chiesa. Non una serie di iniziative che la Chiesa faceva quando c’erano le migliori condizioni possibili. Andare alla Mecca a dire che Gesù Cristo è Figlio di Dio? Non ci sono le condizioni. Allora dividiamo il mondo in sfere di influenza religiosa: il cattolicesimo nei paesi più retrogradi, Italia e Spagna; il centro Europa è diviso a metà e metà, il nord comunque è protestante e così sia, l’Est è slavo, cioè ortodosso… E poi c’è l’islam che non si può fermare. Queste sono le visioni della nuova geografia religiosa che hanno allineato in questi decenni, nella mente e nelle opere, tanti parateologi e sociologi. Quali che siano le condizioni, l’auletta della terza E del Berchet o dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove eravamo in dieci o quindici a sentire le lezioni del prof. Emanuele Severino, perché eravamo iscritti in poco più di quelli, in un clima di familiarità che nessun ‘68 ha distrutto veramente e nessun ’68 ha fatto nascere veramente, quale che siano le condizioni… Quali che siano le condizioni il problema è che le condizioni le detti tu, non ti si impongono e quindi determinano l’esistenza o meno della missione. La missione è la tua vita che si espande come può. La missione è la vita della persona. Se sei nel campo di concentramento di Aushwitz, la tua presenza finirà per andare a dire al Kapò prendi me e non questo qui perché io sono un prete cattolico e non ho figli.
La missione è la vita della persona. Ma come fa la persona a entrare in un mondo senza capire che non incontra soltanto singoli individui ma incontra un mondo e il mondo che incontra è caratterizzato culturalmente. Si incontrano gli uomini che vivono dentro le più diverse culture, che vivono secondo le più diverse concezioni della vita, le più diverse prassi esistenziali, secondo una certa convinzione etica o nell’assenza di convinzioni etiche. Il mondo che incontra l’uomo fa corpo con l’uomo ed è la cultura che lo condiziona positivamente o negativamente. Perciò non c’è incontro con l’uomo se contemporaneamente non c’è un giudizio sulla cultura. Per questo non si può dire Gesù Cristo senza dire che quelli che hanno ammazzato Cristo hanno fatto male, come ha detto Pietro negli Atti degli Apostoli nei primi capitoli. La cultura come giudizio. Ecco questa parola che sta facendo inorridire tanti… Il giudizio è il confronto tra l’uomo, la sua cultura e la realtà del mondo. L’uomo giudica perché vive. Se non giudica vuol dire che non è vivo. Il giudizio è un incontro spassionato anche con i contenuti e i documenti della cultura che caratterizza il mondo in cui si è e questo giudizio, questo confronto fra Cristo e la cultura, può scoprire delle profonde aperture, delle attese. Può scoprire sintonie profonde che legano per esempio san Paolo a Seneca, come è documentato. Questo incontro può vedere ergersi di fronte alla nostra cultura una cultura negativa, che tende alla distruzione di Cristo e attraverso di essa alla distruzione dell’uomo perché Cristo è la salvezza dell’uomo. Non si attacca mai Cristo senza attaccare contemporaneamente l’uomo.
Noi abbiamo sentito il fascino di questa cultura che dialogava con tutto e con tutti non perché diceva che non c’è niente di certo, ma perché entrava nel merito di questo mondo e poneva davanti a questo mondo una posizione nuova e irriducibile. «Quello che amo in voi è la vostra straordinaria capacità di conoscere, incontrare e valorizzare» diceva san Giovanni Paolo II al nostro trentennale. Nel giudizio noi ci spalanchiamo al mondo perché andiamo alle fibre ultime dell’uomo che ho di fronte. Le fibre ultime dell’uomo, magari lui non ne è cosciente, dipendono da una cultura, da una concezione della vita, che magari ha assimilato senza consapevolezza o che gli è stata imposta, come il consumismo o la tecno-scienza sono imposti alla gente che vive intorno a noi senza che se ne sia accorta. Il giudizio è il confronto tra la Verità e il mondo. Questa Verità, proclamata e testimoniata, apre all’altra grande vicenda, all’accoglienza. La verità affratella, unisce, non nel senso di una indistinzione, ma nel senso di una possibilità di compagnia. È in questa possibilità di compagnia che la Verità, di cui siamo portatori, stabilisce fra noi e tutti i nostri fratelli che noi sospendiamo il giudizio sulla persona, sul mistero profondo della sua vita, sulla libertà che ha giocato o non ha giocato. Non sulla posizione cui appartiene, noi su quella, nella misura in cui è sbagliata, dobbiamo dire che è sbagliata. Ma non si deduce da un giudizio sull’errore ideologico o culturale una negatività di giudizio sulla persona. Sono cose che la nostra generazione ha imparato come l’a b c. Adesso li vediamo messi in crisi dai maestri in Israele… questa paura che la giustizia elimini la misericordia. Dire la Verità è il primo modo di fare la carità ha detto san Giovanni Paolo II nella Novo millenio ineunte. La Verità diventa carità ma è ovvio, è stato per secoli ovvio. Dove non è ovvio bisogna ricominciare con la stessa metodologia non cambiandola: come se ci fosse un impegno pastorale quale che sia la dottrina, come se occorresse togliere la dottrina che c’è stata fino adesso, così da poter essere più liberi di fare la pastorale. Verità e carità. Verità e carità si baceranno. Noi abbiamo fatto questa esperienza, facciamo questa esperienza. Noi comunichiamo questa esperienza in qualsiasi condizione viviamo. Io devo comunicarla in un modo ovviamente diverso da quello con cui la comunicate voi, ma la ragione è la stessa: la mia vita, questo movimento della fede che si afferma in me e che rende lieta l’esistenza. Non perché ho sequestrato la fede dalla vita perché se sequestro la fede dalla vita la faccio morire.
Noi abbiamo fatto l’esperienza che Cristo basta alla vita e che, quindi, non possiamo accogliere veramente l’uomo, se l’accoglienza non viene dall’amore incondizionato al Signore. Come ha ricordato Benedetto XVI nella Deus caritas est, noi amiamo gli uomini del nostro tempo, di ogni tempo, perché amiamo il Signore. È un unico gesto d’amore: quello di Cristo che investe me e quello con il quale io rispondo a questo amore facendo si che da me dilaghi nella vita degli uomini che mi sono accanto. Questa è la missione della Chiesa. Ciascuno di noi è chiamato a vivere questa missione nelle circostanze precise della sua vita, redimendo la buona e la cattiva sorte, la salute e la malattia, la gioia e il dolore.
La sacramentalità della comunità, che rende perciò una compagnia veramente cristiana (cioè che si afferma nel mondo per amore a Cristo, verificata dal nesso con il vescovo e con il Papa, incontrando la cultura degli uomini e gli uomini, diventa il potente movimento di autorealizzazione della Chiesa che è la missione. 1960 a Milano, 1980 a Rimini e poi magari a New York e nel 2000 in tutte le altre parti del mondo: è questa esperienza che si è affermata ed è a questo che si deve continuamente ritornare; è questo che si deve ogni giorno rivivere.
C’è una doppia osservazione finale. La questione grave, gravissima, sul piano dell’esistenza della Chiesa oggi nel modo, è che la Chiesa in ogni suo momento viene sfidata da un problema radicale che può assumere volti diversi, ma è sempre lo stesso: se è la fede che giudica il mondo o se è il mondo che giudica la fede. Il mondo, nel IV sec. d.C, diceva che la ragione umana non può ammettere che un uomo sia Dio, Dio è un’altra cosa, è l’atto perenne dell’esistenza dell’essere, fuori del tempo, a sé, quindi non si può dire questo. Si può dire che Cristo è un grande fondatore di religioni, è un grande maestro quindi si deve trovare una mediazione. Invece i padri del Concilio di Nicea dissero: “no, cari miei. La fede che cosa ci fa dire? Che Cristo è il Figlio di Dio e perciò questo deve essere il punto di partenza e dobbiamo dare di questa realtà, che il mondo pagano non comprendeva e meno che mai il mondo ebreo, una formulazione che esprima al massimo la ragionevolezza di questa esperienza. Una delle più grandi novità del pensiero cristiano dei primi secoli è l’affermazione che Gesù Cristo è homousios, consostanziale al Padre, era dalla parte di Dio, non dalla parte dell’uomo, della stessa sostanza, della stessa natura profonda. Dopo che fu detto, 325 d.c., la Chiesa per quasi cento anni fu ancora lacerata profondamente e l’eresia di Ario si affermò in modo subdolo, con certi compromessi linguistici, con certe connivenze, perché era più facile da spiegare ai barbari e serviva di più alla politica dell’impero. La Chiesa allora non si piegò perché alcune grandi personalità di vescovi, Ambrogio di Milano, Lucifero di Cagliari, Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa, Ilario di Poitiers dettero a tutta la cristianità l’esempio che non si poteva recedere dalla posizione ortodossa. Lentamente questa fedeltà ebbe ragione su tutte le resistenze intra-ecclesiali e segnò un passaggio straordinario.
Se voi leggeste la storia della Chiesa, vedreste che in ogni generazione c’è questa grande sfida. È più importante pensare secondo la scienza, la tecnica, la politica, del XVI, del diciassettesimo secolo… o pensare secondo la fede? Se si incomincia ad affermare, come storicamente è stato fatto, che la scienza, la tecnica e la politica sono l’espressione della razionalità umana, mentre la fede con la razionalità non può avere niente in comune, allora la fede diventa un sentimento. La riduzione sentimentale della fede (Lutero) a qualcosa che si sente, si prova. Dovete rendervi conto che noi siamo dentro questa sfida permanente. Vi siamo dentro come Chiesa nel suo complesso, ma anche all’interno di ogni brano di esperienza cristiana che facciamo. È forte l’esperienza cristiana anche se può essere quella di una piccola famiglia, di una donna, ad esempio, gravemente malata di Sla, perché se la fede giudica il mondo allora si vivrà questa terribile vicenda secondo la fede, aiutati in questo dai propri amici che vivono la carità. Se invece è il mondo che giudica la fede allora si può fare morire Eluana Englaro. Lì clamorosamente, patentemente, da allora in poi decine e centinaia hanno fatto la stessa fine in una struttura culturale e socio-politica in cui non si ha neanche il coraggio di dire “cambiamo gli articoli della Costituzione italiana” per potere fare questi delitti. Li fanno senza neanche avere il pudore di una giustificazione di carattere culturale e sociale.
Questa formula, che mi ha accompagnato per tutti questi anni, «è la fede che giudica il mondo o il mondo che giudica la fede», me la disse Jean Guitton, con cui ho avuto, insieme a Giussani, una grandissima e bellissima amicizia per buona parte della sua vita. Egli in forza di questa idea scrisse un bellissimo libro, il più bel libro che abbia letto nella mia vita, Il Cristo dilacerato. Storia delle eresie e dei Concili. E lo scrisse di getto durante la prima fase del Concilio, a cui era stato invitato da Giovanni XXIII. Voi non siete intellettuali, la maggior parte, ma avete sulle spalle la responsabilità di rispondere a questa domanda che vi viene gridata dalla gente che incontrate tutti i giorni perché la giudicate in un modo o in un altro a seconda che voi usiate la fede per giudicare il mondo o usiate il mondo per giudicare la fede. Se usate il mondo per giudicare la fede, non fate più fatica a vivere la fede. L’ignavia non è una virtù. Se uno non ha il coraggio di fare una proposta chiara al mondo che ha intorno, sta tranquillo. La densità di questa vicenda culturale dovete sentirla, perché noi abbiamo sempre sentito sulle nostre spalle il peso della domanda: ha ragione l’ideologia o ha ragione la fede. E Giussani, con la grande tradizione cristiana che aveva dentro le ossa e il sangue, ha risposto sempre che è la fede che vincerà. Anche quando, persino molto in alto, veniva fatta passare l’idea che ormai aveva vinto l’ideologia e si trattava di salvare il salvabile. È la fede che salva il mondo. È questo che io brandisco, con la giovanile baldanza con cui un giovane professore di religione del Berchet, come è stato ricordato tante volte, saliva i quattro gradini per dire ai ragazzi che incontrava che Cristo è il Salvatore dell’uomo e del mondo. È questo che dà una grande dignità alla vita e al lavoro umano, qualsiasi esso sia: partecipare alla missione della Chiesa, rispondere alle domande vere che l’umanità ha sulla Chiesa, dimostrare a questa umanità, alla quale portiamo una risposta dura (è duro questo discorso), alla quale portiamo questo annunzio, la forza di un amore che sa farsi carico di loro e, senza giudicarli, li rimette di fronte ogni volta all’annunzio della fede perché, se lo vogliono, possano aderirvi. Ma se non vogliono noi non li giudicheremo mai come persone anche se non abbiamo potuto esimerci dalla responsabilità di giudicare le culture diverse da quelle che nascono dalla fede, perché, nascendo in modo diverso dalla fede, sono, poco o tanto, sempre riduttive dell’uomo e della sua umanità o addirittura negatrici dell’uomo e della sua umanità.
L’ultima volta che Giussani – c’ero anche io – andò a trovare Mons. Eugenio Corecco, uno dei più grandi vescovi del secolo scorso, forse il più colto che abbiamo conosciuto, che, secondo quella logica a volte un po’ strana con cui Dio guida la Chiesa, morì in pochi anni di un terribile tumore, quest’ultimo gli disse: «Giussani, il tempo si è fatto breve». Egli lo diceva in un senso ben preciso, avvicinandosi la morte, ma Giussani fece gli esercizi spirituali della Fraternità di quell’anno su quella frase. Terminata la visita a Corecco, Giussani mi aveva detto: «il tempo si è fatto breve veramente non perché quest’uomo a cui dobbiamo così tanto sta morendo. Il tempo si è fatto breve oggettivamente. Utilizziamo il tempo per vivere quello che il Signore ci ha fatto incontrare, per comprenderlo sempre di più e per comunicarlo». Se non viviamo la vita con la consapevolezza che il tempo si è fatto breve, non la viviamo secondo la profondità e la verità della fede. Per questo non bisogna perdere il tempo, non bisogna inventarsi cose che non abbiano il rigore e la chiarezza di quello che io ho cercato di comunicarvi oggi, perché, come dice Cristo, «chi non raccoglie con me, disperde» (Mt, 12, 30).
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