In occasione del 52° anniversario dell’ordinazione sacerdotale di mons. Luigi Negri (28 giugno 1972), pubblichiamo alcuni estratti degli Esercizi spirituali tenuti da lui ai seminaristi della diocesi di Albenga-Imperia nell’aprile del 1998, raccolti in seguito nel volume intitolato Essere preti oggi, edito da Piemme. In essi è messa a tema la vocazione sacerdotale, dono dello Spirito che «agisce nella libertà e attraverso la libertà» dell’uomo, con particolare attenzione all’importanza dell’educazione.
Il protagonismo di Dio nello Spirito incontra la libertà. Il protagonismo di Dio nella creazione crea una realtà che non è libera, ma che dipende totalmente da Dio e che ha la possibilità di stare di fronte a Lui. Solo creando l’uomo, Dio crea un essere libero che si pone in qualche modo di fronte a Lui e con Lui instaura un rapporto. Il mistero più profondo è la creazione e, nella creazione, la creazione dell’uomo come libertà.
Il mistero più profondo della vita cristiana è che lo Spirito agisce nella libertà e attraverso la libertà, perciò è paradossale affermare insieme l’assoluto protagonismo di Dio e la presenza della libertà.
Dio è tutto in tutti e lo Spirito anima questo protagonismo, lo Spirito lavora a questo protagonismo nella creazione e nella redenzione. Questo è il paradosso che solo il cattolicesimo ha saputo custodire e salvare, contro le continue tentazioni di semplificazione. Il genio del cattolicesimo è di avere salvato sempre la co-essenzialità sproporzionata di questi due fattori, grazia e libertà.
Lo Spirito fa i conti con la nostra libertà e, per questo, non si può vivere senza la sensibilità che la fede dona: infatti io mi accorgo, dopo venticinque anni di sacerdozio e dopo quarant’anni di vita cristiana cosciente, di avere recuperato tutta quella orientazione affettiva alla fede che la mia famiglia mi aveva dato con una esemplarità che mi riempie di gratitudine ogni istante verso la memoria dei miei genitori.
Mi accorgo che la fede matura la sensibilità umana in modo eccezionale. Non si può passare per il mondo e non rendersi conto che gli uomini per la maggior parte sono così disgraziati perché nessuno li ha educati a vivere realmente la loro libertà, ad assumersi la loro responsabilità di fronte a Cristo e allo Spirito di Dio: ma la vita umana è grande solo se l’uomo è stato educato a vivere la libertà.
Particolarmente lo Spirito di Dio ha avuto bisogno e ha bisogno della nostra libertà nel riconoscimento della nostra vocazione. La nostra vocazione è un dono assoluto dello Spirito, ma ha voluto essere riconosciuto, ha voluto essere preferito ad altri, guardato, amato, perseguito con quel sacrificio che ogni perseguimento ideale necessariamente comporta.
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L’educazione è quindi l’esercizio concreto, continuo, storico della carità pastorale.
Nella Parola è la presenza reale di Cristo, rivelazione definitiva del Padre. Nel Sacramento è la presenza reale di Cristo, morto e risorto, che accoglie la vita e le mette dentro quel lievito nuovo che porterà la massa dell’esperienza umana, la massa della vita umana alla sua misura concreta. C’è una assicurazione finale che introduce a tutta la dinamica dell’educazione e in fondo alla dinamica della maturazione della vita cristiana dell’uomo, delle dimensioni della vita, rese nuove da queste azioni di Cristo che continuamente sono da generare nella presenza di Cristo.
È questa l’educazione che contesta il naturalismo, contesta l’istintività, contesta la presunzione dell’uomo di fare a meno di Dio.
Noi non possiamo educare l’uomo senza aprire una grossa contestazione nel suo cuore, fra la propria istintività naturale e la novità di Dio che chiama in Cristo ogni uomo. È la morte dell’uomo della carne, è il superamento della propria naturalità per adeguarsi ad una misura più grande nel rinnegamento di sé, è l’uscita da sé per seguire un Altro, è quella metanoia profonda con cui Cristo fu annunciato, iniziando la sua missione tra gli uomini.
Noi non possiamo non dire che questa novità supera infinitamente ogni chiarezza che l’uomo ha raggiunto, ogni bene che l’uomo crede di potere fare, così come supera ogni male. Noi non possiamo non aprire il nostro cuore, come il Signore fa continuamente per noi, per questa lotta fra l’uomo della carne e l’uomo dello spirito; così noi non possiamo non farci promotori di una polemica contro la naturalità che si chiude in sé, contro l’autonomia che diventa autonomismo, contro l’individualità che diventa individualismo, contro la compagnia che diventa collettivismo; noi non possiamo non mettere in discussione le misure dell’uomo, l’intelligenza, la coscienza dell’uomo e l’apertura dell’uomo al mistero, che di fatto diventa normalmente affermazione della misura dell’uomo come misura esauriente, e dunque come chiusura.
Dio ci ha dato la coscienza come apertura a Lui, che non può essere vissuta come chiusura.
Dio ci ha dato l’amore come capacità dell’affermazione del mistero di Dio in sé: in tutti gli altri casi l’amore diventa pietismo, affermazione del proprio potere. L’amore può essere un amore a Dio fino – diceva sant’Agostino – al disprezzo di sé, al superamento della propria naturalità, ma purtroppo può anche essere un amore a sé fino al disprezzo di Dio.
Non possiamo non vivere questa lotta in noi e non possiamo predisporci ad aiutare i nostri fratelli cristiani a vivere questa lotta.
Questa è la lotta contro le tenebre, è la battaglia che dobbiamo vivere e alla quale dobbiamo richiamare.
Tutte le altre battaglie sono aspetti di questa battaglia profonda della propria conversione, dell’intelligenza e del cuore. Sono battaglie che valgono in relazione a questa. La battaglia della giustizia sociale, dell’uguaglianza della cultura, di un modo più umano nei rapporti fra gli uomini e i gruppi di nazioni sono applicazioni di questa grande battaglia o sono evasioni alternative.
Il prete inizia e trova nel suo cuore, nella sua appartenenza a Cristo, questa battaglia ed è questa battaglia che accende intorno a sé, affinché la novità di Dio possa realmente impadronirsi degli uomini e cambiare i cuori.
Aprire il discorso dell’etica, dell’attuazione di quella straordinaria posizione ontologica che passa attraverso l’appartenenza incondizionata a Cristo e l’amore reale e fraterno, per il prete vuol dire predicazione e amministrazione dei sacramenti fatta con la consapevolezza di ciò che sono, fatta non come una routine, come un ruolo, come una pura funzione, non come una settorialità, non come la risposta ai bisogni religiosi nel senso ristretto spiritualistico e sociologico della parola.
La predicazione della Parola è invece la risposta che Dio dà ai bisogni di verità dell’uomo. E il bisogno di verità dell’uomo è il bisogno dell’uomo.
L’amministrazione dei sacramenti come la chiamata dell’uomo a partecipare della vita di Dio in Cristo Gesù.
Gabriel Marcel diceva: «Ama chi può dire all’altro, tu non devi morire». Come fa uno a dire ad un altro tu non devi morire? Coinvolgendolo nella presenza di Cristo morto e risorto che ha fatto finire il dominio delle tenebre della morte (è una verità di fede), per rimetterlo dentro quella vita di Dio nella quale e per la quale anche la morte non è più la fine del passaggio.
Non possiamo pensare di amare veramente, se non vivendo fino in fondo, in modo sostanziale e impegnato, quella vertiginosa ontologia nella quale l’Ordinazione Sacra ci ha introdotti per sempre.