La mia preoccupazione fondamentale, nel ritrovarci e nel vederci, è quella di far posto alla grande questione che un cristiano deve sempre tenere presente: che non venga meno l’amicizia, innanzitutto l’amicizia con Cristo. Infatti, può nascere l’amicizia sulla terra solo perché c’è l’amicizia di Cristo verso noi, altrimenti anche le parole più importanti, quelle sulle quali si possono giocare materialmente tante vite, corrono il rischio di una fondamentale alterazione. Il discorso della fede può alterarsi, l’identità profonda della fede rischia di trasformarsi in una cornice verso la quale una parte del mondo può ostentare anche una certa attenzione, una certa stima, ma non è più la stessa cosa o non è più quello che dovrebbe essere.
In queste brevi osservazioni che seguono farò riferimento, da una parte, alla liturgia ambrosiana dell’Avvento e, dall’altra, alle condizioni nelle quali viviamo oggi. Possiamo non averle determinate noi, ma sono situazioni con le quali dobbiamo misurarci e sulle quali è necessario esprimere un giudizio, un’ipotesi di lettura che ci consenta di viverle come sfida positiva, utile alla crescita della nostra fede, e non come un’obiezione, che tende a distruggere la nostra identità. L’identità si collega a un compito, l’identità cristiana sfocia in un compito. «Mi sarete testimoni fino agli estremi confini del mondo» (At 1, 8) questo è stato chiesto, fin dall’inizio, a poco più di una decina persone, non dotte, illetterate, che venivano dai confini del mondo, perché tali erano considerati i territori di Israele, secondo un rigido apartheid che dominava la vita sociale e i rapporti sociali.
Prima osservazione
La prima osservazione cerca di cogliere nel profondo la grande lezione dell’Avvento ambrosiano, il quale è, soprattutto in alcune pagine straordinarie della liturgia, profondamente debitore di san Carlo Borromeo. L’Avvento ambrosiano è caratterizzato da una fondamentale certezza: che il Signore è venuto e verrà. È venuto per la salvezza degli uomini e del mondo; è l’unica possibilità di salvezza, ma questa sua Presenza tende a una manifestazione assolutamente nuova e definitiva, ovvero la seconda venuta, quella nella quale tornerà nella gloria come giudice degli uomini e del mondo. Giudice perché dovrà e non potrà fare altro che considerare la modalità con la quale la libertà degli uomini avrà saputo giocarsi di fronte a Lui. Tuttavia, con un’intuizione bellissima, San Carlo parla di una terza venuta che, pedagogicamente, è più importante delle altre due. Perché questa venuta deve rinnovarsi nel nostro cuore. Infatti, ciò che collega la prima venuta all’attesa della manifestazione definitiva del Signore può essere vissuto in modo non adeguato: prendevano spunto dalla certezza che il Signore sarebbe venuto per una serie di affabulazioni sulla fede, insistendo a tal punto che Paolo dovette intervenire più volte, affermando che era inutile perdere tempo cercando di immaginarsi la modalità secondo la quale sarebbe avvenuta la seconda venuta. San Carlo dice che è necessario che l’avvenimento di Cristo sia una presenza continua da riconoscere e da amare. La presenza di Cristo esiste nella vita perché è venuto per la vita; è venuto per coinvolgere definitivamente la nostra vita con la sua; è venuto per partecipare a noi quella vita nuova di Dio che il Signore Gesù Cristo, che già la possedeva per natura e della quale si era spogliato, riprese in maniera definitiva non solo per sé, ma per tutti quelli che avrebbero creduto in Lui. Ecco le parole dello stesso San Carlo:
Questo mistero mentre ogni anno la Chiesa celebra, ella ci ammonisce a tener perpetua memoria di così gran carità usataci dal misericordioso Dio; e insieme ci insegna che la venuta del Signore non fu solamente per quelli, che avanti o che allora si trovarono nel mondo quando egli venne, ma la virtù d’essa resta sempre per beneficio di tutti noi ancora, se per mezzo della santa fede e dei divini sacramenti vorremo ricevere la grazia che ci ha portata, e secondo quella ordinare la vita nostra sotto la sua obbedienza. Vuole ancora che intendiamo che si come egli venne una volta in carne al mondo, così, se per noi non resta, è per venire ogn’ora, anzi in ogni momento, ad abitare spiritualmente nell’anime nostre, con abbondanti doni» (Dalle «Lettere pastorali» di san Carlo Borromeo, vescovo – Lettera sopra l’Avvento. Acta Ecclesiae Mediolanensis).
L’Avvento è un’attesa, l’attesa di chi vuole penetrare nel mistero di Cristo presente, di chi vuole comprenderlo meglio, di chi vuole consegnare la propria vita a Lui. L’attesa ha sempre, umanamente parlando, un aspetto di dubbio, invece qui non c’è dubbio, qui c’è una certezza che deve essere intenzionata da noi e deve diventare vera per noi, come ci ha insegnato sant’Agostino. Attendere non vuole dire aspettare una cosa che dall’esterno ci provochi, ma vuole dire tendere: l’attesa della Chiesa è un tendere sempre di più a Lui presente. Non è pensabile una vita cristiana che non abbia nel suo cuore la tensione verso Cristo: se la nostra vita non ha come radice e come movimento la tensione al Signore, allora il Signore non c’è più, viene messo lentamente ma inesorabilmente sullo sfondo della nostra coscienza che viene occupata da ciò che il mondo ci impone di considerare. Se salviamo la fede solo per quegli aspetti per i quali non mette in discussione la mentalità del mondo, per i quali accetta di essere totalmente inserita nella mentalità mondana, contrariamente a quanto dice San Paolo quando esorta i fratelli a non assumere la posizione del mondo, a non identificarsi con il mondo, la fede è destinata a essere mutata in altro. Credo che la maggior parte di voi si ricordi come il grande teologo cecoslovacco Josef Zverina brandì questa frase dell’apostolo Paolo per chiedere a tutti i cristiani d’occidente che la smettessero di andare zigzagando fra le ideologie, o quello che ne rimaneva, per trovare il proprio piccolo posto all’interno del mondo completamente laicizzato e quindi anticristiano.
La Chiesa vive l’avvento ogni anno perché si rinnovi l’attendere, il tendere a Cristo. L’attesa dunque è un avvenimento dinamico, è una posizione dinamica: l’intelligenza e il cuore sono chiamati a riconoscere sempre di più che ciò che è accaduto sta di fronte a me e ci sta in modo tale che la mia intelligenza e il mio cuore vengono programmaticamente sfidati da questa presenza. Vengono sfidati in modo tale che la mia libertà, ogni giorno, deve decidere se la mia vita appartiene a Lui o se la mia vita appartiene a me, se la mia vita ha come riferimento sostanziale di tutta l’esistenza Lui o me.
Io sono personalmente convinto che la domanda «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà ancora la fede sulla terra?» (Lc 18, 8) può essere intesa così: troverà la fede di quelli che avranno continuato a tendere a Lui, o troverà la fede di quelli che, pur avendo fatto le migliori cose possibili, hanno cercato solamente di sovvenire alle necessità di questo mondo? Troverà la fede di chi, in nome di Dio, ha costruito un tempio che poi è stato distrutto perché imparassimo che non c’è niente di quello che fa l’uomo che resista, anche quando crede di farlo per Lui, o troverà la fede di chi rinnova ogni giorno l’attesa di Lui? La fede è un continuo tendere a, è un continuo attendere. Questa attesa viva, questo desiderio di mettere in gioco la fede e la nostra verità personale con Lui è il motore dell’esistenza. Se il movimento della vita è l’attesa di Lui, allora si vive tutta la vita con nel cuore questa tensione, e si esprime questa tensione in tutto quello che si fa.
Un esempio. Questa mattina la mia parrocchia di origine, san Rocco in sant’Andrea, a Milano, mi ha chiamato a presiedere una concelebrazione per festeggiare il quattrocentesimo anniversario della sua fondazione. Se guardiamo alla storia possiamo vedere come, nella nostra tradizione, la gente ha creato, dovunque c’era un insediamento umano, una chiesa come luogo dove vivere l’Eucarestia, come luogo dove imparare a vivere la fede attraverso la predicazione, come luogo dove alimentare la propria esperienza umana attraverso i sacramenti. Le chiese sono state costruite per affermare questa presenza. La presenza di Cristo nel mondo è messa a rischio, se non si possono costruire le chiese. Per questo le chiese sono state costruite con grandissimi sacrifici, anche economici, e riempite da subito con la bellezza dell’arte. Perché l’Italia è un fenomeno unico nella storia della cultura universale per la grandezza delle sue espressioni artistiche? Perché il tessuto dell’Italia è sempre stato un tessuto di fede, come ha detto chiaramente Benedetto XVI a Verona. È per questa certezza di fede che si costruiscono le chiese, si celebra l’Eucarestia, si rendono belle le chiese. È per questa certezza di fede che la piccola comunità di un paesino del Montefeltro ha potuto chiedere al grande scultore Della Robbia di fare, per quella piccola comunità, la statua della Madonna col Bambino a tutto tondo, pagando allora una grande somma. Per comprendere l’eccezionalità del fatto basta dire che l’altra unica copia fu acquistata dallo Zar Pietro, durante la sua visita in Italia, per finire all’Ermitage e, successivamente, essere distrutta dai “grandi” rivoluzionari social-comunisti.
La tensione diventa responsabilità e opera, la tensione a Cristo diventa cultura della vita. Una fede che si estranea dall’esistenza, che si riempie magari di pratiche spirituali, di preferenze di tipo spirituale, ma non morde il terreno della vita, della storia, della città, del mondo, è la fede di Lutero non certo quella di Cristo. L’attendere genera civiltà, l’attendere, in modo vivo e dinamico, crea cultura e civiltà. La comunità cristiana genera inesorabilmente una civiltà nuova (è una frase letterale del cosiddetto Libretto Rosso di Gioventù Studentesca). Io non condanno una comunità cristiana che creda di potere esistere, come comunità cristiana, tacendo su tutto e su tutti, ma essa deve mettersi con vera lealtà di fronte all’avvenimento di Cristo e chiedersi se le dimensioni fondamentali della fede, così come il Signore ce le ha insegnate e la Chiesa ci ripropone, sono ancora vive nel suo cuore. Ringraziamo perciò la liturgia Ambrosiana perché conserva, senz’altro meglio di quella Romana, questa insistenza sull’attesa. Rendiamo onore a questa bellissima immagine: l’attendere genera vita. L’attendere non astrae, non chiude; l’attendere Cristo è presente nel mangiare, nel bere, nel vegliare, nel dormire, nel vivere e nel morire.
Seconda osservazione
La grande novità di ogni giorno non consiste nel fatto che le cose vadano male o bene. La novità non coincide con quanto ciascuno può fare di bene o di male, non è rintracciabile nell’ordine della comprensione delle condizioni obbiettive della vita. La novità consiste nel fatto che noi possiamo aprire gli occhi ogni mattina con una certezza che è più profonda di tutte le fatiche, di tutti i limiti e di tutti i beni: «Benedetto il Signore Dio di Israele perché ha visitato e redento il Suo popolo» (Liturgia delle Ore, Cantico di Zaccaria). La liturgia in questa preghiera, che apre il cammino della giornata, ci ricorda che il Signore ci ha redento assieme al suo popolo; la redenzione prende dentro il nostro limite in modo tale che noi possiamo guardarci non con gli occhi della reazione, ma con gli occhi del perdono.
Quale è il contenuto di questa attesa di Cristo oggi, nell’Avvento 2016? Occorre tenere presente tutti i grandi avvenimenti ecclesiali che si sono succeduti, dei quali l’ultimo estremamente significativo è stato l’Anno Santo della Misericordia; occorre non dimenticare tutte le vicende drammatiche, per non dire tragiche, della vita sociale. Infatti, in questi ultimi 2 o 3 anni, in Italia, si è verificato il tentativo determinato e terribile di eliminare completamente qualsiasi segno della tradizione cristiana, non soltanto a livello culturale, perché, anche se non avete giudicato o non siete stati aiutati a giudicare, ciò che è accaduto contro la famiglia, nelle aule del nostro Parlamento, è stato un attacco violento contro la tradizione della Chiesa e, quindi, contro la tradizione della vita cristiana. Un’altra espressione di questo attacco violento sono state le tante statue della Madonna rotte e distrutte, non a Erbil, ma in Spagna o a Messina, nel silenzio e nel ridimensionamento di molti, a volte anche dell’autorità ecclesiastica, che immediatamente le ha ricondotte a delle ragazzate. Non bisogna, però, dimenticare che nel ’68 si è verificata una serie di ragazzate che ha cambiato il volto della vita culturale e sociale.
Qual è allora il contenuto dell’intendimento di Cristo ora? Noi desideriamo capire in modo nuovo cosa sia la fede perché il pericolo che incombe sulla vita della comunità ecclesiale è quello che venga modificato il DNA della fede e, invece della fede, vengano proposti osservazioni, suggerimenti, inviti, assolutamente legittimi dal punto di vista umano, ma che non possono vantare il crisma dell’ortodossia. Quello che è in questione oggi è l’ortodossia della fede. Cosa è la fede, quale è il suo contenuto fondamentale? Il contenuto fondamentale è che nella nostra vita ha fatto irruzione un avvenimento nuovo, una realtà nuova: il Mistero di Cristo morto e risorto che viene partecipato a tutti quelli che credono e che quindi sono coinvolti in questa vita nuova e ne diventano testimoni e protagonisti. La fede non ha all’origine le reazioni individuali e neanche collettive alle situazioni mondane drammatiche o anche tragiche. Nessuno può negare che la povertà dilagante a tutti i livelli della vita sociale, in Italia come in tutto il resto del mondo, sia qualcosa sulla quale si deve appuntare l’opera della nostra fede. Tuttavia, accanto a questa enorme povertà materiale, inaspettata e per la quale nessuno era preparato, perché per decenni siamo stati abituati a vivere al di sopra delle nostre esigenze o delle nostre possibilità, avendo come unico criterio il benessere inteso come immediata corrispondenza a quello che uno sente o desidera, accanto a questa povertà che ci stringe il cuore, come non sentire in modo terribile la violenza contro ogni esperienza religiosa e, in modo particolare e fondamentalmente, l’esperienza cristiana. I cristiani sono, infatti, espulsi dal Medio Oriente in cui erano insediati dal II o III secolo, buttati fuori dai loro paesi, requisiti delle loro proprietà con il segno del nazzareno, usato per dire che sono esseri inferiori e che non hanno più nessun diritto. Di fronte a tali situazioni allora che cosa attende il cristiano durante il periodo d’Avvento? Se io dovessi descrivere cosa attendo che Cristo mi faccia rifiorire nel cuore, direi che non è la sensibilità verso i problemi, così drammatici e gravi come quelli descritti, ma l’amore alla sua Presenza. Prima c’è la certezza che noi, come cristiani, partecipiamo a un mondo nuovo, siamo un mondo nuovo, siamo una realtà che ha ricevuto, per grazia, il senso profondo della sua identità, della sua storia e ha ricevuto e riceve quell’apertura dell’intelligenza e del cuore per la quale diventa possibile sopportare l’esistenza in tutta la sua problematicità e drammaticità.
Se noi siamo un evento nuovo, è questo evento che dobbiamo vivere e annunciare. La fede ha il volto dell’evangelizzazione. La fede o evangelizza o non è. Infatti, l’evangelizzazione consiste nella proclamazione della novità umana in Cristo e nella sua comunicazione a tutti i nostri fratelli uomini, tutto il resto consegue. Un’umanità nuova, un essere nuovo nel mondo, una società nuova perché questo essere nuovo nel modo non è una novità individuale ma la partecipazione dell’uomo, della persona a un popolo che lo rende nuovo e che gli fa fare l’esperienza della novità. La novità di Cristo ci arriva attraverso la fede e i sacramenti, come ha detto san Carlo al suo popolo nel brano della sua lettera pastorale che abbiamo ricordato. Allora il cristiano deve partire non dal fatto che ci siano tanti problemi, ma dal fatto che esiste un essere nuovo nel mondo: c’è un mondo nuovo di cui noi facciamo parte; un mondo nuovo nel quale viviamo; un mondo nuovo che dobbiamo tendere a comunicare a tutti perche è essenziale per la loro vita umana. Cristo unico redentore dell’uomo e del mondo.
Molti dicono che il contenuto della fede deve essere caratterizzato solo dal preoccuparsi delle problematiche umane, storiche e sociali. Così come mi ricordava in questi giorni un’altissima autorità ecclesiastica, in questo modo non si procede più dalle premesse alle conseguenze, ma si mettono le conseguenze al posto delle premesse e perciò, non essendo un’espressione algebrica, cambiando l’ordine degli addendi cambia l’esito; cambiando l’ordine degli addendi risulta un’altra cosa che non c’entra con la prima. Si può pensare che l’evangelizzazione oggi non debba farsi carico della povertà? No. Si può pensare che l’evangelizzazione cristiana oggi non debba caricare il mondo di giudizi e di operatività tese a risolvere, per quanto si può, le condizioni drammatiche o tragiche nelle quali vive una parte della nostra umanità? No. Ma nessuno degli impegni esaurisce la fede ed esprime in maniera adeguata e definitiva la fede. La fede non è senza le opere, ma le opere non sono la fede; sono la verifica della fede. Allora è corretto che ci sia una sensibilità ai bisogni, ma occorre non dimenticare che i bisogni materiali mettono a nudo o velano, tante volte, dei bisogni profondi, spirituali, culturali. Si possono riempire le nostre città di opere caritative e dimenticare che le persone, che vengono assistite, sono delle anime che aspettano Cristo. La fede non si riduce a nessuna delle pur giustissime conseguenze socio caritative e socio politiche che da essa scaturiscono. Il cristianesimo non si identifica con l’aiutare i poveri. Infatti, il cristianesimo, con la partecipazione viva e quotidiana al mistero della fede nella sua assoluta gratuità e nella sua radicale misericordia, esisterebbe anche se tutti vivessero agiatamente, perché non si sarebbe comunque risolto il problema fondamentale della vita che continua a farsi sentire, nonostante tutto il benessere. Per questo il grande cardinale Biffi si rivolse alla sua diocesi di Bologna chiamandola “sazia e disperata”.
La capacità di generosità, che nel nostro Paese si è sempre opportunamente sintetizzata con una grande capacità educativa e operativa, è frutto della fede cristiana. Da chi la Chiesa italiana deve imparare a occuparsi dei poveri? I nostri paesi sono pieni di case di riposo, di scuole e di asili costruiti dalla fede del nostro popolo, che ha sacrificato il proprio benessere o le proprie vacanze per poter erigere questi segni stabili della sua attenzione operativa ai poveri. Tuttavia, il procedimento deve essere dall’evangelizzazione all’impegno culturale, sociale e politico e non bisogna invertire: c’è una priorità dell’evangelizzazione che dobbiamo imparare come dei bambini, tutti i giorni. Dobbiamo imparare Cristo, dobbiamo imparare la sua Presenza, dobbiamo desiderare Cristo più di tutto, dobbiamo amare il Signore più di ogni altra cosa in noi e fuori di noi. Allora la fede si esprime come intelligenza nuova e cuore nuovo: l’intelligenza nuova conosce Cristo e il cuore nuovo lo ama e lo diffonde nel mondo di oggi facendosi obiettivamente carico di tutte le difficoltà, senza la presunzione di risolverle, con l’intendimento di dare il proprio contributo particolare, significativo, originale. Non si deve far entrare la carità cristiana nel calderone del solidarismo laicista perché così siamo bene accetti: noi diamo un contributo alla società in tutto quello che siamo e che facciamo, ma l’originalità della nostra presenza è che declina il Mistero di Cristo.
Noi amiamo gli uomini perché amiamo Cristo, come hanno testimoniato coloro che hanno creato opere gigantesche di carità, cominciando da Madre Teresa di Calcutta. Ella aveva ben chiaro, e non aveva assolutamente timore a proclamarlo davanti a tutti, anche ai giornalisti americani andati a vedere quell’affascinante opera di una donna che si prendeva cura dei moribondi e dei bambini abbondati. Le chiesero perché facesse quelle cose e Madre Teresa rispose, con l’umiltà e il coraggio degli uomini di fede, «io vi do la risposta ma sono certa che non la capirete», aggiungendo, «ci occupiamo di questi bambini e di questi poveri perché amiamo Cristo».
Quello che è in gioco nell’ora che passa, nel nostro contesto, è la possibilità di una gravissima alterazione della realtà della fede che diventa qualcosa di più accessibile al mondo, meno scandaloso, quasi dimenticando che Cristo, il Figlio di Dio che ha salvato il mondo, è lo scandalo per ogni generazione cristiana prima ancora che per l’umanità. Per questo occorre riproporre un percorso che vada dall’evangelizzazione alle opere, con quella grande apertura del cuore che è caratteristica significativa della fede perché la fede si esprime nella carità.
Ho indicato come apporto significativo della liturgia ambrosiana dell’Avvento questo attendere, questo inesorabile tendere a Cristo: «Cercate prima il Regno di Dio e la Sua giustizia» (Mt 6, 33). Ma dov’è il Regno di Dio? Certamente esso porterà al cambiamento totale del mondo, quando e come il Signore vorrà, utilizzando anche i nostri sforzi, ma il Regno di Dio è, innanzitutto, Egli presente, custodito dalla Chiesa, comunicato dalla Chiesa. Egli diventa, nella realtà della Chiesa, principio nuovo di conoscenza e di azione. Questo noi dobbiamo volere e desiderare. Se si parte da questo tutto il resto, compatibilmente alle nostre situazioni, alle esigenze, alle capacità, ne consegue.
Un esempio. L’evangelizzazione per san Giovanni Bosco volle dire un’impresa titanica: salvare centinaia e centinaia di giovani che gremivano Torino, giovani che non avevano un posto dove andare a dormire, dove andare a mangiare. Egli ha creato un’impresa straordinaria di evangelizzazione, di educazione e di professionalizzazione. Lui ha reagito così. Un altro esempio. Il nostro don Giussani cosa ha fatto? In un contesto di povertà culturale, intellettuale e di lacerazione della tradizione cattolica, che era ben impostata nelle famiglie, ma che franava inesorabilmente di fronte all’ira del laicismo nelle nostre scuole, ha creato un movimento di educazione alla fede in cui chi vi partecipava era messo in grado di percorrere quell’itinerario che ho richiamato: dalla fede alle opere.
Senza sconvolgimenti e senza indebite assolutizzazioni: la fede non è quello che facciamo, è ciò per cui facciamo tutto. Per questo quando Santa Teresina del Bambin Gesù dovette passare dieci anni della sua vita in un’infermeria, non potendo fare nulla di quello che aveva fatto fino ad allora, la sua fede in Cristo si esprimeva cosi come poteva. Solo così scaturisce una grande libertà e una straordinaria capacità: quando il cuore è affidato a Cristo, noi entriamo nel mondo, lo capiamo e lo amiamo. Quando il cuore non è affidato a Cristo ci perdiamo in inesorabili diatribe di carattere culturale, sociale, politico, in analisi e contro analisi.
Se si verifica questa ripresa, questa tensione a Cristo, si forma una cultura e una civiltà con un’inevitabile obiezione al mondo, non agli uomini. Perché il mondo vive esattamente per affermare se stesso e per eliminare la presenza di Cristo, perciò noi non combattiamo nessun uomo, ma combattiamo per la verità di Cristo. Chi è per la verità di Cristo è con noi, chi non è per la verità di Cristo si assumerà la propria responsabilità secondo una modalità che solo nell’esperienza della fede è chiamato ad assumersi. Infatti, se il Dio di misericordia non è un Dio di giustizia, non è il Dio cristiano. Perché la giustizia implica il rispetto della libertà, e uno porta le conseguenze della sua libertà, che non sono indifferenti. Il bene e il male non sono indifferenti: un gesto negativo che permanga tale non può generare frutti buoni, mentre purtroppo, un gesto buono può corrompersi.
Osservazioni conclusive
Mi avvio alla conclusione. Occorre, quindi muoversi alla ricerca della nostra identità di fede, alla ricerca di quella novità ultima della vita umana e della storia alla quale siamo stati chiamati a partecipare per Grazia. All’inizio è vero ci sono io come tendenza, come desiderio, ma all’inizio c’è anche la Grazia di Dio che mi coinvolge in un cammino di libertà, cioè di responsabilità. In questo senso ho vissuto, con tanta intensità, insieme al mio popolo, l’Anno Santo della Misericordia, che ha riproposto l’inaudita volontà di Dio di entrare nella vita dell’uomo e di coinvolgerlo con sé. Io e il mio popolo abbiamo approfondito un aspetto fondamentale: l’esperienza della Misericordia urta con il peccato perché l’uomo, che viene coinvolto dalla Misericordia, è un uomo che può rifiutare la Grazia. Come abbiamo fatto esperienza della Misericordia? Certamente non attraverso le diatribe para-teologiche che sono fiorite sui giornali laicisti. Abbiamo imparato cosa è la Misericordia rinnovando l’esperienza del Sacramento della Riconciliazione. Abbiamo imparato a confessarci, veramente dovrei dire, abbiamo reimparato a confessare e a confessarci. Abbiamo imparato che bisogna chinare la testa di fronte alla presenza di Cristo e dire “ho peccato”. È in questo modo che la Misericordia, in modo del tutto inaspettato, incredibile, incomprensibile, attraverso questo giudizio su di me, che la Chiesa accoglie e fa suo, permette che fiorisca non la condanna ma il perdono: «Va e non peccare più» (Gv 8, 11). Come si fa invece a sostenere, a favorire una vera e propria disintegrazione della coscienza cristiana per la quale il bene o il male sono la stessa cosa, tanto Dio è più grande del bene e del male? Certamente Dio è più grande del bene e del male ma io faccio il bene o il male. La fede è la cosa più concreta della vita, non lascia fuori niente neppure il male compiuto. L’uomo non si salva dicendo che tanto il male non c’è, perché Dio è misericordioso. L’uomo si salva solo perché, riconoscendo che Dio è misericordioso, ha l’umiltà di mettere di fronte a Lui il suo peccato.
Ho fatto questa osservazione sull’Anno Santo (intuizione pastoralmente geniale di Papa Francesco) per dire che dobbiamo avere questo atteggiamento di desiderio vero che Cristo sia tutto, perché se Cristo è tutto non lascia fuori niente né di noi, né del mondo e ci rende benevoli verso noi stessi, in modo tale che uno non si maledica perché è cattivo. C’è, infatti, solo questo modo per non maledirsi, non certo quello che ha promosso il laicismo occidentale, ovvero dire che il male non esiste, perché è solo un artificio banale, che non riempie la vita e, soprattutto, non conforta nei momenti del peccato e dell’errore.
Evangelizzare è tentare di cambiare il mondo con le opere che nascono dalla fede, dentro un cammino ecclesiale che abbia la preoccupazione di rendere possibile l’educazione. Il magistero degli ultimi tre papi, con tutte le evidenti articolazioni e differenze, in una cosa è inesorabilmente unitario: nel richiamare la Chiesa alla preoccupazione educativa. La Chiesa deve accettare di fare camminare i suoi figli verso la consapevolezza piena della novità della fede e verso il rischio della vita cristiana, che è una vita non “garantita” ma una vita rischiosa, drammatica, diceva Don Giussani. Pertanto la Chiesa sappia vivere il rischio educativo per sé e per i suoi figli.
La preoccupazione più grave deriva dal fatto che vengano modificati artificiosamente i termini essenziali della nostra esperienza di fede. Già Paolo VI ci aveva messo in guardia e la sua frase, tante volte ripresa nei nostri incontri, torna a essere attuale:
All’interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all’interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa. Bisogna che sussista un piccolo gregge, per quanto piccolo esso sia».
Non sarà mai il pensiero della Chiesa, resterà sempre un piccolo resto. Noi dobbiamo impegnarci, innanzitutto, perché si realizzi tra noi questo piccolo resto; poi questo piccolo resto prenderà la sua strada nella Chiesa e, dalla Chiesa, prenderà la sua strada nella società. Ma occorre che noi siamo un piccolo resto che crede, un piccolo resto che ama Cristo più di se stessi, un piccolo resto che si placa solo nell’amore verso Cristo. Questa è la cosa che ci tocca.
La Chiesa, donando il Battesimo, ha immesso ciascuno di noi nel vivo della fede, ovvero della Presenza di Cristo, perché non c’è niente che possa accadere nell’ordine della fede che non parta dal Battesimo. E i Santi sono quelli che hanno preso sul serio fino in fondo il loro Battesimo, portandolo alle conseguenze che hanno sentito giusto, laici o preti che fossero. Non dimentichiamo che, nella cerimonia del Battesimo, davanti al bimbo, di cui si afferma la novità totale, si dice, pronunciando il nome, “sei diventato nuova creatura”. Questo significa che all’origine del nostro cammino, 20 anni fa, 30 anni fa, 75 anni fa, c’è la Grazia che ci cambia e, poi, c’è il cammino di questo continuo incontro tra la sua Grazia e la nostra libertà che assume le conseguenze di ogni cammino storico, nella buona e nella cattiva sorte, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia.
Chiediamo al Signore che ci dia la consapevolezza umile, ma appassionata, del fatto che è in gioco la fede nel nostro mondo. Anche perché noi, per il tipo di storia che abbiamo avuto e per il cammino che abbiamo compiuto e che stiamo compiendo, non possiamo disinteressarci, non di questa o di quell’altra cosa, ma della fede, perché non possiamo disinteressarci del Destino di Dio. Del destino nostro e degli uomini potremmo anche non interessarci, ma del destino di Dio non possiamo non interessarci perché Dio ha messo il suo Destino nelle nostre mani, l’ha messo in modo tale che la prosecuzione dell’azione di Cristo nel mondo, attraverso la Chiesa, passa attraverso la libertà con la quale ciascuno di noi dice il suo SI ogni mattina: «Benedetto il Signore Dio d’Israele perché ha visitato e redento il Suo popolo».