Il cuore del carisma di don Luigi Giussani

A vent’anni della morte di don Giussani (22 febbraio 2005), nella ricorrenza del 43° anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e Liberazione (11 febbraio 1982), pubblichiamo di seguito, in formato podcast e nella sua trascrizione, una meditazione di mons. Luigi Negri tenuta in occasione del pellegrinaggio a Lourdes del 2014. A partire dal significato del pellegrinaggio, dalle considerazioni intorno al ruolo fondamentale dell’autorità (ordine sacro) nella Chiesa e alla funzione carismatica di Maria come Madre della Chiesa, viene messo in luce «il cuore del carisma di don Giussani». Di fronte alla Madonna di Lourdes, la cui prima apparizione è avvenuta proprio il giorno 11 febbraio, mons. Luigi Negri si affidò a Lei con queste parole: «Madre, aiutaci a riprendere l’inizio in modo che renda lieta la nostra esistenza di oggi e il nostro sacrificio quotidiano».


Il pellegrinaggio: gesto per recuperare le origini della fede

 

Il pellegrinaggio è un recupero delle origini, nell’assunzione più matura della propria storia, per una nuova responsabilità. In questo senso il pellegrinaggio, secondo la tradizione della Chiesa, praticata per secoli prima ancora che fosse chiarito teoricamente, è un po’ come la cifra della vita cristiana. La vita cristiana è questo permanente ritornare all’inizio e il pellegrinaggio è sempre un tornare all’inizio perché è un tornare a Cristo. Anche nella potente suggestione delle apparizioni mariane o delle confidenze che hanno corredato talune di queste apparizioni vi è una ripresa dell’avvenimento di Cristo. È un riaprirsi dell’avvenimento di Cristo in modo significativo, in modo straordinario, appunto. L’apparizione è una ripresentazione che la Madonna fa, a tutta la Chiesa e, quindi, ad ogni cristiano, dell’evento di Cristo. Ripropone l’avvento di Cristo, ma insieme ripropone sé stessa come strada, come strada per incontrare Cristo. In questo senso spesso don Giussani ricordava una frase che von Balthasar aveva detto in un nostro incontro: «la Madonna è la sintesi dell’esistenza cristiana». La Madonna ci insegna contemporaneamente chi è Cristo, qual è il mistero di Cristo, e ci insegna come viverlo. In questo esprime una maternità verso la Chiesa, una maternità che la costituisce oggi come un punto necessario per la Chiesa. Non necessario per l’esistenza della Chiesa nella sua identità, non necessario in quel senso. Necessaria per l’esistenza della Chiesa è la successione apostolica, cioè il movimento di autorità, il movimento autorevole a cui, dagli apostoli in poi, Gesù ha affidato la nascita e la rinascita continua della Chiesa. Hanno ricevuto l’ordine sacro e insieme hanno ricevuto una responsabilità specifica nella vita della Chiesa: il potere di insegnare, il potere di predicare, il potere di governare. È questo ciò che è necessario alla Chiesa. Se non c’è questo, non c’è la Chiesa. Se non c’è l’ordine, non c’è la Chiesa. L’ordine non chiuso in sé stesso come affermazione autoritaria. L’autoritarismo anche nella vita della Chiesa può esserci, ma è una corruzione dell’autorità. L’autorità esiste perché esista il popolo. Esiste perché il popolo venga continuamente rinnovato nella sua identità. L’autorità fa nascere il popolo di Dio, lo alimenta con la sua parola, lo alimenta con i sacramenti e lo guida con la sua autorità. Perciò senza autorità non c’è Chiesa. La Chiesa rimane un agglomerato, un agglomerato poco o tanto significativo di persone diverse come formazione e cultura, rimane in questi agglomerati senza forma, perché l’autorità è la forma del popolo. Un popolo senza autorità non ha forme e, quindi, le differenze diventano disgregative, mentre dove c’è l’autorità come forma del popolo, le differenze permangono come differenze, ma tendono ad affermare misteriosamente l’unità. Diceva Sant’Agostino che la Chiesa è una ma che si esprime in una varietà infinita. Però dentro questo popolo, in cui è necessario l’ordine, c’è Maria, non necessaria per quanto attiene all’identità della Chiesa, perché con buona pace di tutti la Madonna non fa parte dell’ordine, non è dentro la successione apostolica. Sebbene come esperienza di fede sia superiore a tutte le esperienze di autorità che ci sono state nella Chiesa, non appartiene all’ordine sacro, perciò non ha nella Chiesa una funzione istituzionale. Ella ha una funzione assolutamente carismatica, quella di rendere viva l’esperienza della Chiesa, di rendere viva l’esperienza della Chiesa e di consentire al popolo di far veramente questa esperienza. La madre è infatti, anche nella vita naturale, colei che rende possibile vivere in maniera positiva e benevola un ideale di vita che altrimenti resterebbe assolutamente inattingibile. La madre nella struttura della vita sociale naturale è il luogo dell’accoglienza e della maturazione. Il padre è il luogo dell’autorevolezza, dell’ideale, dell’ideale reso presente. Con buona pace di tutti quelli che dicono che ci possono essere due padri, tre madri, sei nonni, la famiglia ha strutturalmente bisogno dell’elemento maschile e dell’elemento femminile, nella loro differenza che è essenziale per la nascita stessa della famiglia e per il suo sviluppo genetico. Ma essenziale anche come esperienza culturale, spirituale. Allora Cristo ha lasciato la Madonna nella Chiesa come madre della Chiesa, quindi come punto da cui imparare che cos’è Cristo e come viverlo. Veramente, impariamo chi è Cristo dal magistero della tradizione e buona parte, una parte enorme, del magistero della tradizione ruota attorno alla presenza di Maria. Si impara chi è Cristo dal magistero della tradizione. L’apparizione e il messaggio può confermare, può sviluppare, può rendere più familiare il volto del mistero di Cristo, può dargli una connotazione di intimità che nella Sacra Scrittura è soltanto generalmente affermata. La Madonna sta nella Chiesa come madre, cioè insegna a seguire Cristo. E mentre insegna a seguire Cristo incrementa la coscienza che la Chiesa ha di Cristo. Ma è assolutamente chiaro per la Chiesa che uno dei criteri fondamentali per verificare ciò che la Madonna eventualmente ha comunicato o realmente ha comunicato, a Fatima come a Lourdes, è verificare se, nelle confidenze della Madonna, non ci sia nulla di diverso o di contrario al magistero e alla tradizione. Se queste confidenze segnassero una lontananza, una distrazione da ciò che la Chiesa crede da sempre, comunque e in qualsiasi circostanza, e che è garantito dalla presenza dell’autorità, sarebbe un segno che non siamo di fronte a un evento ecclesiale, ma a una sua corruzione.

Allora, ho inteso farvi queste distinzioni, primo perché la confusione regna sovrana nella Chiesa e, quindi, su tante di queste cose si può sentire dire tutto e il contrario di tutto, ma soprattutto per identificare bene il momento del pellegrinaggio, il momento e la funzione del pellegrinaggio. In questi giorni la Madonna ci aiuta a recuperare, come dire, la nostra storia cristiana. La nostra storia cristiana non c’è perché abbiamo incontrato la Madonna, la nostra storia cristiana c’è perché abbiamo incontrato Gesù Cristo e lo abbiamo incontrato nella dirompente attualità del “qui” ed “ora”, come Andrea e Giovanni l’hanno incontrato una certa mattina in cui, invece di andare a lavorare, sono andati a sentire Giovanni Battista. E questo fatto casuale, assolutamente casuale, ha propiziato per loro l’incontro non con Giovanni Battista, ma l’incontro con Cristo, con la sua parola. Tutto questo ha messo in moto nella loro vita un movimento per cui, come ci ha insegnato tante volte nelle sue letture di questi brani del Vangelo don Giussani, non hanno più potuto essere come prima. Tornati a casa – diceva Giussani, come se fosse presente e qualche volta si aveva la sensazione che la sua intensa partecipazione, anche affettiva alla vita di Cristo, lo rendesse in qualche modo presente –, le mogli si sono accorte subito che non erano più come prima. Ora, se questo è il nucleo portante, bisognerà innanzitutto che, con molta concretezza, recuperiamo l’inizio.


Il cuore del carisma di don Luigi Giussani

L’inizio della fede è il battesimo. L’inizio della fede è il battesimo. Perché il battesimo è l’incontro con Cristo oggettivo, reale, storico, nella povertà della fattispecie dell’acqua, nella particolarità assolutamente indiscutibile e non modificabile della forma, si studiava da piccoli, della parola della Chiesa. La parola della Chiesa così come la Chiesa l’ha ricevuta e così come la Chiesa la ripropone. La forza della parola è tale che supera anche una consapevole identificazione con la Chiesa. Può battezzare uno che non ha la fede, può battezzare uno che non appartiene alla Chiesa, mi spiego, a condizione che intenda fare quello che la Chiesa fa e può intendere di fare quello che la Chiesa fa anche con una consapevolezza così iniziale da sembrare inesistente. Recuperare il battesimo. Ma noi possiamo recuperare il battesimo perché abbiamo incontrato una storia che ci ha fatto riprendere coscienza del battesimo. Se non avessimo fatto un certo incontro, il battesimo sarebbe morto. Morto non nel senso che si annulla perché non si annulla nessun sacramento. Quindi non si annulla, con buona pace del cardinal Kasper, neanche il matrimonio. Ma dire che non si annulla, che rimane certamente sempre vero, e dire che non ha più presa reale, queste due cose, non sono in contraddizione. Il battesimo segna per sempre la mia vita indelebilmente. Pio X nel suo catechismo, che i più vecchi di noi hanno studiato, diceva che conferisce il carattere sacro che nessuna realtà umana e storica può mai eliminare dalla vita di uno che lo ha ricevuto nel sacramento del battesimo e della cresima. Ma questo può risultare vero ma astratto, vero ma lontano: la mia generazione ha sentito questo come un dramma reale, non con particolare drammaticità, ma certamente come un dramma reale. La fede, la tradizione, una cosa grandissima, ma quasi quasi irrimediabilmente segnata da un’astrazione, vera ma astratta. È una verità astratta, non è una verità reale. La verità è reale perché cambia l’uomo, perché gli rivela il senso ultimo della sua vita, perché lo fa camminare verso il suo destino. Nell’incontro con il Movimento, la nostra generazione ha capito che la fede non stava più alle spalle, ma stava dentro l’orizzonte dell’attualità. La tradizione era un incontro che si faceva, che si poteva fare, e, essendo un incontro che si poteva fare, era un presente a cui affidare la propria esistenza, un presente nel quale vivere il proprio presente e nel quale proiettarsi verso il futuro, perché il presente non ha valore in sé e per sé. Il presente, diceva sant’Agostino, è una striscia, è una striscia piccola, è una dimensione piccolissima che sta fra un passato che sembra ormai inattingibile e un futuro che sembra impossibile. Mentre un presente vero pacifica col passato e lancia il futuro.

Questo che per una certa generazione ha avuto il valore del recupero anche affettivo della tradizione, ha avuto subito la consapevolezza che questa tradizione, che recuperavamo nella concretezza della nostra compagnia, era assalita dal male; questa ripresa della tradizione non poteva non essere chiamata a una lotta, a una lotta dura, non perché noi volessimo fare la lotta, ma perché il mondo si metteva in lotta con noi, tentando di eliminare in tutti i modi ciò che caratterizzava il nostro presente, che rendeva così bello e lieto il presente. Per questo la lotta fu con la mentalità che si andava formando nelle scuole, perché la mentalità anticristiana, che si andava formando nelle scuole, era lo strumento fondamentale dell’attacco alla nostra tradizione. Era uno strumento fondamentale con cui il mondo non cristiano cercava di eliminare il peso reale e storico del cristianesimo. Ora, per capire questo, per capire come questo sia accaduto, occorre recuperare una cosa che spesso abbiamo anche detto, sentito dire, ma che, dopo tanti anni, dopo gli anni che vanno dal 1957 ad oggi – tali sono gli anni della mia compagnia nel Movimento e, soprattutto, della compagnia con don Giussani –, non so quanto sia compresa. E invece questo costituisce il cuore del carisma di don Giussani. Il carisma di don Giussani, si potrebbe dire in forma teologica imponente e precisa, è la certezza e la riscoperta della sacramentalità della Chiesa, quando la Chiesa non l’aveva ancora formulato con questa chiarezza; l’aveva vissuto per duemila anni, ma non l’aveva formulato con la chiarezza con cui l’ha formulato nella Lumen gentium e con cui lo sviluppo del magistero, in particolare di Giovanni Paolo II, lo ha poi articolato. Cristo è presente nei suoi e perciò l’unità dei suoi è la sua presenza oggi. La sua presenza, la presenza di Cristo, non avviene, non può accadere nel mondo senza i suoi. «Dove due o tre saranno insieme in nome mio, io sarò con loro fino alla fine del mondo». Non può esserci Cristo senza il popolo, perché Cristo è presente nel popolo. Ma che Cristo sia presente nel popolo vuole anche dire, e per noi fu così, per noi e per tantissimi dopo di noi, vuole dire che a Giovanni, Giacomo, Andrea … possiamo aggiungere i nomi nostri e quelli dei nostri amici. È come se questa realtà si aprisse ogni giorno, senza scomparire. I nostri amici non sono scomparsi. Non abbiamo recuperato Cristo dimenticando i nostri amici o superando i nostri amici o relativizzando i nostri amici. Ma nel vivo dell’amicizia è apparso il vero protagonista della nostra compagnia. Il vero protagonista della nostra compagnia è Gesù Cristo. In Paolo, in Giacomo, in Andrea, in don Giussani e in tutti gli altri. Ciascuno potrebbe metterci i nomi di questa straordinaria compagnia, la compagnia del Signore. Perciò seguendo questa compagnia, aprendoci tutti i giorni a questa compagnia, noi abbiamo incontrato il Signore, non perché questa compagnia era fisicamente il Signore, perché c’è una differenza fra il capo e il corpo, c’è una distinzione fra Cristo e la Chiesa. Cristo è nella Chiesa, ma non è la Chiesa. La Chiesa è il popolo nel quale Cristo è presente. L’esperienza straordinaria degli inizi, che si è rinnovata tutte le volte che ci siamo messi o ci mettiamo con cuore puro di fronte al mistero di Cristo nella compagnia, è che dentro la compagnia riaccade il mistero di Cristo. Questo significa che non si può trascendere la comunità, piccola o grande non mi interessa. Se si trascende la comunità, intanto la si trascende con un’operazione intellettualistica. Se si relativizza la comunità è perché c’è un’idea mia che ha più valore della comunità. Mi spiego? Per Ario aveva più valore la sua idea rispetto alla comunità: Cristo non poteva essere Figlio di Dio perché i greci non potevano ammettere una cosa del genere. Quando si relativizza la Chiesa, si fa diventare essenziale un proprio parere, una propria posizione, una propria opinione. Allora, quando io riconosco che il Signore è qui, non sacralizzo tutto. Il popolo è fatto di greci, di barbari, di schiavi, di liberi, di uomini, di donne, di intelligenti e di fessi, di onesti e di disonesti. È un popolo che fa l’esperienza travolgente dalla santità, cioè di partecipare alla santità di Cristo, perché la santità della Chiesa ha una sola radice: nella Chiesa è presente Colui che è santo, cioè Cristo. Nella Chiesa si fa esperienza di santità, si fa esperienza di limite. La santità non annulla meccanicamente il limite, ma il limite non annulla la santità. Ora è per questa percezione che noi siamo l’uno per l’altro sacramento di Cristo.

Il tradimento appartiene al malessere dell’uomo. Ora la Chiesa non è garantita contro il tradimento. Mi spiego. La Chiesa non è garantita contro l’egoismo. La Chiesa non è garantita contro la libidine. Pensate a quando san Paolo parla – adesso lo leggiamo come se fossero delle esercitazioni psicanalitiche fatte dai dei “pirla” perché non avevano la nostra conoscenza delle scienze. Quando san Paolo fa l’elenco dei vizi che non si possono tollerare nella Chiesa, lo fa per dire che queste cose, se son presenti come son presenti, primo non devono essere favorite, secondo, in ogni caso, non annullano l’assoluta novità della Chiesa. Santa e peccatrice, dice San Ambrogio ripreso e approfondito dal cardinal Biffi. Allora, non potranno mai convincerci che 3000 – 4.000, o quanti sono, preti pedofili distruggono la Chiesa nella sua identità, nel suo compito. Non potranno mai convincerci razionalmente che tutta la disonestà intellettuale, morale, psicologica, affettiva, sessuale dei papi o dei vescovi tolga la santità della Chiesa.


Nell’incontro con don Giussani, una grazia assoluta

Ecco, noi abbiamo avuto una grazia assoluta: Giussani ci ha dimostrato che la Chiesa, nel suo porsi dentro il mondo («dove due o tre saranno insieme in nome mio, io sarò con loro fino alla fine del mondo»), è l’unica possibilità di incontrare Cristo. Cristo non si incontra, se non nella Chiesa. Questo ha stabilito e stabilisce la nostra vita sulla roccia, che non è la nostra presunzione di essere onesti e non è l’ira o il disagio del non essere onesti, o meglio l’ira e il disagio causata dagli altri che non sono onesti, perché la presunzione di essere onesti è una presunzione su di sé, mentre il disagio e l’ira per i limiti non è mai il disagio e l’ira per i nostri limiti, ma è il disagio e l’ira per limiti degli altri. Mi spiego? Lutero diceva: se il Papa, i vescovi e i cardinali fan così… bisogna distruggerli tutti. L’idea di perfezione puramente moralistica, di cui lui non è stato capace neanche per un istante, diventa il criterio per giudicare la verità o no della Chiesa. Noi abbiamo avuto una grazia assoluta. Vi assicuro che sono assolutamente consapevole che la maggior parte della gente del Movimento non ha questa consapevolezza, almeno come dovrebbe averla e perciò rischia di fare dell’impegno cristiano un impegno soggettivo, soggettivistico, individuale, moralistico, organizzativo. Per esempio, la comunità ha certamente una sua organizzazione, siccome ha una sua organicità.  Ciò che è organico e non è organizzato, non è veramente organico. Basta studiar bene il corpo umano. Il corpo umano è una straordinaria organicità che perciò si organizza. Dio ha pensato a fare anche i fattori di questa organizzazione, ma il mistero di Cristo presente nella Chiesa va oltre tutta l’organizzazione che la Chiesa deve e può darsi. Io, in cinquant’anni di vita quasi quotidiana con Giussani, posso dire che non c’è stato un anno in cui non cambiasse tutte le strutture. Tutte! Ma non ha mai cambiato l’idea di fondo per la quale nella nostra unità era presente il Signore, perché noi eravamo il sacramento di Cristo, come la più piccola comunità della Chiesa, che è unita al Papa e al vescovo, che è presente insieme in un ambiente nel mondo, è il luogo inesorabile della presenza di Cristo.

Potremmo approfondire, ma a me pare molto importante oggi dirvi che il nostro inizio è questo; e la cosa più miracolosa, l’ho accennato tante volte in questi tempi, è che è stato l’inizio per gente che era vicinissima alla tradizione cristiana, ma è stato l’inizio anche per gente che non si sapeva da dove venisse; da una certa età, da un certo periodo in poi, ha premuto alle porte dalla comunità, nata dal cuore di Giussani, gente che veniva dalla “giungla”, gente che veniva dal disastro psicologico, affettivo, morale, dalle famiglie che cominciavano a distruggersi copiosamente sotto i nostri occhi, da una scuola che rivelava ogni giorno di più quello che noi dicevamo da tanti anni, che una scuola così certamente non faceva bene. Se proprio eravamo fortunati non faceva male. E poi, dopo, questo disastro all’origine ha assunto un volto più chiaro, quel modo per il quale Giussani parlò di effetto Chernobyl, come un disastro psicologico e culturale che rischiava di non rendere più vivibile e incontrabile l’uomo nella sua identità di essere cosciente, pensante.

Insomma, possiamo andare avanti una settimana, fare un corso di esercizi spirituali, ma se voi rileggete, se li avete ancora in casa, come li ho in casa io, un po’ incasinati, i libretti degli esercizi dalla Fraternità, il tema secondo varie angolature, il tema è sempre stato una sacramentalità vissuta. L’ultima lettera di don Giussani al Papa Giovanni Paolo II: “vede santità, noi abbiamo, mi perdoni, quasi la presunzione di pensare che nella nostra Fraternità ci sia una aliquale esperienza di sacramentalità”. Ora questo a me sembra che sia assolutamente necessario oggi in cui tutto tende a non partire dal fondo, ma tutto tende a far partire da qualche cosa che è dopo il fondo; ma partire da qualche cosa che è dopo il fondo, se questo da cui si parte non c’entra col fondo, è un tradimento, perché si dà a una conseguenza un valore di assolutezza che ha solo il Signore nel suo popolo.

Chi può negare che il mondo di oggi ci fa sperimentare, secondo una connotazione fino a qualche anno fa impensabile, delle situazioni spaventose e incredibili, penso ad esempio alla povertà. La povertà ha sempre sfidato la Chiesa, la povertà materiale, la povertà come penuria di mezzi, la povertà come insicurezza sul dove stare, sul dove abitare. La Chiesa ha risposto a questa povertà, ha accettato la sfida di questa povertà con un popolo che ha saputo anche fare eroismi per lasciare il segno che la povertà materiale nelle sue varie forme non poteva lasciar tranquilla una comunità. Gli asili, le case di riposo, le opere che nei paesi della Brianza è difficile adesso ritrovare perché è tutto distrutto dalla insipienza con cui i preti si sono preoccupati più di dialogare che di essere. Quale paese non aveva il ricordo di un asilo sul frontone del quale c’era il nome del benefattore? Comunque la povertà materiale ci sfida in un modo inaudito. Il nostro popolo sta facendo l’esperienza di una miseria che solo i più vecchi si ricordano. Quindi fa l’esperienza di una cosa terribile verso la quale non ha nessuna preparazione né intellettuale né morale. Quindi è indubbio che oggi la parola povertà, non tanto in quanto ogni due per tre è conclamata, ma in quanto diventa un’esperienza, un’esperienza di condivisione che si fa non certo con la presunzione di pensare che noi siamo in grado di risolvere tutti i problemi della povertà che ci circondano, ma di dare come una serie di segni, sperando il più copiosi e il più significativi. E la povertà è la povertà culturale, morale. E questa povertà, questa assenza assoluta di speranza vera, affidabile per l’uomo, come diceva Benedetto XVI nella Spe salvi, non è uno schiaffo ancora più bruciante di quello della povertà materiale? E questa povertà spirituale ci allinea perché c’è anche dove uno dovrebbe essere contento perché non è povero, è ricco. Non è forse vero che tanto modo di agire, di pensare e di agire, dell’ecclesiasticità è perfettamente materialista e ateo, perché il cristiano comune, il più impegnato, pensa che, se attua un programma di carattere caritativo e sociale, si risolvano i problemi e, risolvendo i problemi, si risolva il problema dell’umanità? Quando ho visto Benedetto XVI, a febbraio, gli ho detto: «Ma Santità, se noi riuscissimo, io non credo che potremo, ma se noi riuscissimo a risolvere tutti i problemi materiali e sociali del nostro tempo, sarebbe finita la vostra funzione?». E mi ha detto: «No, Eccellenza. Qualsiasi condizione umana ha bisogno dell’annunzio di Cristo, perché non c’è nessuna condizione umana, per quanto positiva, che non riveli al sotto di lei un vuoto». Un vuoto che proprio il benessere materiale non riesce a coprire. E poi mi ha detto: «E, in una situazione così, non ci sarebbe più posto per la gratuità, per la testimonianza della gratuità». Il padrone del mondo è uno sforzo titanico e demoniaco di risolvere tutte le povertà materiali, culturali, eccetera… secondo una programmazione rigorosa. Viene fuori l’inferno.

Quindi, siamo sfidati dalla cultura, sfidati dalla povertà materiale e sfidati dall’assenza di cultura. Per questo la fede non può non generare una cultura di fronte al mondo, offerta a tutti gli uomini come una possibilità di ritrovarsi, non imposta a nessuno, ma neanche, come dire, lasciata vivere nel fondo della nostra coscienza individuale. Ma il mondo non è soltanto povertà, il mondo è ormai un progetto diabolico di cancellazione del dell’uomo nella sua identità. È vero o no che l’eugenetica di tipo hitleriano domina più che ai tempi di Hitler? Che la vita umana è oggetto di manipolazioni, oggetto di manipolazioni sempre meno discutibili perché sempre più imposte attraverso la certezza che in fondo lo esige la scienza? Il delirio dello scegliere i figli attraverso procedure che sovvertono la legge naturale; gli uteri in affitto e quello che viene sbandierato ogni giorno della stampa come un progresso. Francesco, incontrando i vescovi della Conferenza Episcopale Italiana, lui di cui la stampa dà sempre un’immagine relativista, problematicista, eccetera …, ha detto: «siamo stati investiti dallo tsunami del gender e non abbiamo fatto nulla». «Viviamo nella dittatura di un pensiero unico dominante e vi chiedo: cosa fate?». Quindi è la necessità di giudicare questo mondo, non i singoli, non le persone e le loro intenzioni. Le persone e le loro intenzioni, le giudica Dio. Ma a un mondo malato deve essere detto che è malato, perché, se a un mondo malato non dici che è malato, non appresti anche la terapia. Allora, siccome, la prima immagine di Cristo, quella che è circolata di più, poi superata da quella del buon pastore, ma la prima immagine che si trova in moltissime catacombe, è quella del Cristo medico. È il Cristo medico, il Cristo buon samaritano che cura. Allora, se in un mondo malato come il nostro, dove si ammazza Eluana Englaro sulla presunzione di una cattiva scienza e una cattiva tecnica, su falsità di carattere scientifico, mi spiego, utilizzando la disonestà intellettuale morale di una certa magistratura, se in un mondo così, non dici che questa è una cosa intollerabile che deve essere condannata, non parli più di Cristo, perché, se hai taciuto su questo e parli di Cristo, come diceva il nostro indimenticabile amico Claudio Chieffo, parli di un Cristo di plastica. Perché il Cristo che non è di plastica, ha la forza di aggredire il mondo, non per distruggere il mondo, ma per mettere nel mondo quello che il mondo si aspetta, ma non può darsi. Voglio dire che il carisma di don Giussani, per cui ci siamo convertiti al cristianesimo, ha oggi una pertinenza e un’attualità che cresce, ma mano che il tempo passa.

Io mi auguro e vi auguro che questo sostare della nostra vita nel volto tenerissimo di sua madre, questo ripercorrere con lei i gesti fondamentali della fede – la messa, il rosario, la via crucis, il silenzio orante nella grotta –, queste cose che sono il pane e il vino della nostra vita quotidiana, il sostare, insomma, possa aiutarci a rincontrare il mistero di Cristo nel mistero della nostra comunità ecclesiale e, quindi, ritrovare Cristo all’origine della nostra novità umana e cristiana. Questo dia alla vostra esperienza di appartenenza al Movimento e alla Chiesa una dimensione forte. Il mondo ha bisogno di cristiani forti. Lo si discuteva abbastanza, con una dignità che l’ultimo sinodo non ha avuto, nel penultimo a cui ho partecipato. Quando si è discusso in modo molto intelligente e articolato del dialogo come espressione della maturità cristiana. Benedetto è intervenuto due volte in modo mite, ma deciso, dicendo che il dialogo è l’espressione di un’identità forte. Tutte e due le volte ha insistito sull’identità forte e ha aggiunto: «La forza di un’identità non sono né i mezzi né le armi». La forza di un’identità sono le ragioni e questo ha aperto e apre, secondo me, nella vita della nostra comunità, com’è nella vita di tutta la Chiesa, la grande dimensione della educazione. La grande dimensione dell’educazione: una comunità è forte se è capace di educare ed è forte se i giovani non la abbandonano. Grido di allarme il mio, limitatissimo perché non sono più dentro la concretezza della vostra vita quotidiana; chiamato qua e là, il più delle volte per dare il mio contributo alla lettura e a una seria esegesi del libro su Giussani, non ho avuto la sensazione che le nostre comunità siano ricche di giovani; a volte ho avuto la percezione che comunità storiche stiano diventando un po’ come le comunità che devo visitare e ho visitato nelle mie diocesi, sempre comunità di vecchi. Una comunità può essere anche fatta tutta solo da vecchi e non è meno importante che una comunità di giovani, certamente, ma non amare, non desiderare che, in forza della capacità educativa che noi abbiamo, i giovani, come siamo stati noi, possano riscoprire nella comunità cristiana il fascino di una umanità diversa, è una sfida. Non è colpa. Non può essere necessariamente una colpa perché la modificazione degli assetti della società sono oggettivi, mi spiego. Ma almeno la sfida, almeno chiedersi o richiedersi che cosa esige questa possibile, come dire, lontananza fra noi e i giovani. Io non ho fatto fatica a dire alle mie due Chiese che c’era una lontananza fra i giovani e noi e, quindi, a mettere in stato di interrogazione la Chiesa perché ritrovasse la sua capacità educativa e rispendesse il talento dell’educazione, che è il talento più importante che un uomo, un cristiano, ha, che la Chiesa e i cristiani hanno a disposizione.

Ma mi fermo perché a me sembra che la questione sia come l’ho enucleata per me – l’ho nucleata per me perché è la mia esperienza, non ho mai detto in questi anni, se non quello che io per grazia di Dio e affezione della Madonna ho sempre sperimentato –, ma per dirvi che, se deve esserci una ripresa dell’inizio, sia la ripresa dell’inizio reale. E noi tutti che siamo qui, nella diversità delle ere geologiche, abbiamo fatto questa esperienza di unità. Non c’è nessuno che possa dire, se non mentendo, che ha fatto un’altra esperienza d’inizio. Non c’è nessuno fra voi che possa dirmi: quello che hai descritto come inizio non è stato vero per me, non è stato così per me. Non sareste arrivati fino adesso, se l’inizio non fosse stato quello che ho descritto io. Allora lo descrivo perché lo riprendiate. lo l’ho ridetto perché davanti al volto di Maria che domina Lourdes e da Lourdes la Chiesa, davanti al volto di Maria, si possa dirle con molta con molta tranquillità e con confidenza: «Madre, aiutaci a riprendere l’inizio in modo che renda lieta la nostra esistenza di oggi e il nostro sacrificio quotidiano».

Concludo leggendo un brano un brano iniziale, bellissimo, di un libretto in cui hanno raccolto delle meditazioni di Benedetto XVI sulla Madonna: Maria Stella della speranza.

«Vorrei comunque ora soffermarmi su questo stupendo mistero della fede, che contempliamo ogni giorno nella recita dell’Angelus». Ricordatevi che, nella Chiesa, il nostro Movimento è stato l’esperienza più copiosa dell’aver rimesso l’Angelus al centro della nostra esperienza spirituale. Don Giussani ha fatto “una battaglia” perché innanzitutto noi e, poi attraverso di noi, i nostri amici scoprissero la centralità dell’Angelus come la sintesi del dogma cristiano. Ma riscoperta come è, come una preghiera, una certezza pregata. È una certezza pregata che mobilita la vita ogni giorno. Una certezza pregata toglie alla certezza qualsiasi astrazione, qualsiasi rigidezza, come si dice adesso, quando si dice che la dottrina diventa formale. Una certezza pregata rende la certezza viva. «L’annunciazione narrata all’inizio del Vangelo di San Luca (la nostra annunciazione, l’annunciazione quando è toccato a noi, in analogia all’Annunciazione di Maria, perché nella Chiesa può e deve avvenire un’annunciazione a ciascuno di noi, sennò non è una cosa viva) è un avvenimento umile, nascosto – nessuno lo vide, nessuno lo conobbe, se non Maria –, ma al tempo stesso decisivo per la sorte dell’umanità». Noi portavamo il destino del mondo, disse uno dei primissimi, e questa frase ritornò qualche anno fa nel dibattito interno al Movimento. Studenti liceali, universitari, noi avevamo la consapevolezza di portare il destino del mondo. Il cristiano o ha questa consapevolezza o non è ancora cominciata la nascita cristiana. La Vergine disse il suo sì, per cui una cosa banale, che sembra banale, non lo è, è necessaria a tutti. Perciò bisogna dirlo a tutti. Il Brasile, come improvviso, inaspettato movimento missionario fatto da studenti, la maggior parte ancora minorenni, non pensato da Giussani o dagli altri capi, ma venuto su dall’idea che era così bella la nostra vita qui che non potevamo tenerla qui. È finito poi male perché il demonio fa saltare anche le cose belle, ma questo movimento addirittura si autofinanziò con le decime che pagavamo settimanalmente perché la gente che era Belo Horizonte potesse avere una vita dignitosa come la nostra. Una cosa particolare, ma decisivo per la storia dell’umanità. Questo è il cristianesimo. Se non accade così, non è cristianesimo.

«Quando la Vergine disse il suo sì all’annuncio dell’angelo, Gesù fu concepito quando disse di sì. Il concepimento, secondo l’interpretazione dei padri della Chiesa, il più radicale dei quali è Sant’Agostino, è il sì che provoca la concezione del verbo di Dio nel seno della Vergine. Quando la Vergine disse il suo “sì” all’annuncio dell’Angelo, Gesù fu concepito e con Lui incominciò la nuova era della storia, che sarebbe stata poi sancita nella Pasqua come “nuova ed eterna Alleanza”. In realtà, il “sì” di Maria è il riflesso perfetto di quello di Cristo stesso quando entrò nel mondo, come scrive la Lettera agli Ebrei interpretando il Salmo 39: “Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per compiere, o Dio, la tua volontà” (Eb 10,7). L’obbedienza del Figlio si rispecchia nell’obbedienza della Madre e così, per l’incontro di questi due “sì”, Dio ha potuto assumere un volto di uomo. Ecco perché l’Annunciazione è anche una festa cristologica, perché celebra un mistero centrale di Cristo: la sua Incarnazione».


*La fotografia in evidenza è un particolare della copertina del libro Luigi Negri, Con Giussani. La storia e il presente di un incontro, Ares, Milano 2021 – foto di un «raggio» alla Torre a Varigotti scattata in occasione della Settimana Studenti GS 1960 (VII), «Les gens qui vivent se rencontrent», 26-30 settembre 1960 (© Fraternità di CL).