
Di seguito l’intervento di mons. Luigi Negri tenuto il 22 ottobre 2005 al convegno Evangelium vitae – Dieci anni dopo, organizzato dal Movimento per la Vita. In esso vengono spiegate, a partire dall’Enciclica di Giovanni Paolo II, le ragioni per le quali la Chiesa non può non difendere la vita. Significherebbe, infatti, venire meno all’annuncio del Vangelo: «La Chiesa dunque non può vivere la sua missione, proclamare la verità della redenzione, senza affermare il valore assoluto della vita umana e in forza di questa certezza giudicare tutte le formulazioni ideologiche, giuridiche, sociali e politiche».
Premessa
Sono lieto di portare il mio contributo, stringato ed essenziale, ai vostri lavori. Anche perché il Movimento per la Vita e tutte le battaglie che in questi anni sono state combattute, soprattutto dal laicato in Italia, mi hanno sempre trovato – e molti amici lo sanno – schierato dalla vostra parte; le grandi vicende dei referendum sul divorzio e l’aborto sono state essenziali per la maturazione della mia coscienza cristiana e presbiterale. Credo che siano pagine in cui il laicato italiano ha mostrato che la missione ecclesiale non è esclusiva del clero: la missione ecclesiale è di tutto il popolo cristiano. Il popolo cristiano può essere anche più avanti di coloro che lo guidano. Quando Pio XII, nel grande Concistoro del 1950 – quello in cui non poterono partecipare i cardinali dei Paesi dell’Est europeo, perché erano minacciati dal momento che, se fossero andati a Roma non sarebbero più potuti tornare nella loro terra –, fece un grande discorso, molto spesso dimenticato, in cui la frase centrale era: «I laici non sono nella Chiesa: sono la Chiesa». Ecco io penso che questa sia la grande certezza che sostiene, ha sostenuto e sosterrà la missione della Chiesa, che è la missione di tutto intero il popolo, del quale fanno parte quelli che hanno, o dovrebbero avere, la responsabilità della guida.
Il mio intervento dà un contributo per chiarire un punto: non si può negare che ci sia stato un predominio, anche nella mentalità cattolica, della mentalità radicale. Non intendo sviluppare, è già stato fatto abbondantemente per quanto ho già visto, le grandi questioni morali legate alla pratica dell’aborto o alla manipolazione della vita e neanche alle conseguenze di carattere socio-politico, che pure sono presenti. Ma voglio intervenire sull’aspetto culturale. Perché ogni grande questione ecclesiale è anzitutto culturale; ogni grande annunzio è anzitutto l’annunzio di una cultura adeguata. L’etica dipende dalla cultura, la politica e la socialità dipendono dalla cultura.
Diceva il grande sant’Agostino che anche i peccati, quelli che andiamo a confessare, hanno il loro livello di concepimento, non negli organi fisici, ma nella “testa”. Ritengo che la questione sia recuperare la cultura della vita. Che cosa si intende, cosa intende la Chiesa, in particolare cosa intende Giovanni Paolo II, quando parla di cultura della vita e la contrappone coraggiosamente alla cultura della morte (indicando nella cultura della morte il minimo comun denominatore di tutte le culture che sono contro la Chiesa)? Essendo contro la Chiesa sono contro la vita, perché si fondano su una cultura della morte.
Parto da una grande affermazione della Evangelium vitae, forse quella centrale:
La Chiesa (…) si sente chiamata ad annunciare agli uomini di tutti i tempi questo «vangelo», fonte di speranza invincibile e di gioia vera per ogni epoca della storia. Il Vangelo dell’amore di Dio per l’uomo, il Vangelo della dignità della persona e il Vangelo della vita sono un unico e indivisibile Vangelo.
Il Vangelo dell’annunzio cristiano comporta necessariamente il Vangelo del valore assoluto della vita. È per questo che l’uomo, l’uomo vivente, costituisce la prima e fondamentale via della Chiesa. Ciascun uomo, proprio per il Mistero di Dio che si è fatto carne, è affidato alla sollecitudine materna della Chiesa. Perciò ogni minaccia alla dignità e alla vita dell’uomo non può non ripercuotersi nel cuore stesso della Chiesa; non può non toccarla al centro della propria fede, nell’incarnazione redentrice del Figlio di Dio, non può non coinvolgerla nella sua missione di annunziare il Vangelo della vita in tutto il mondo e ad ogni creatura.
Prima osservazione
Le osservazioni che seguono tentano di articolare una comprensione e una giustificazione razionale di questo grande annunzio di Giovanni Paolo II. Ce n’è una prima con la quale si contesta culturalmente la concezione radicale nichilista: la vita non è, innanzitutto e sostanzialmente, un’esperienza bio-fisiologica; la vita è la vita di Dio che viene comunicata agli uomini. La vita è un senso della vita, il valore della vita, il significato della vita: è il destino della vita. La vita fisica appare evidentemente come un aspetto di un complesso molto più ampio, molto più decisivo, molto più significativo. La vita è il senso stesso della vita.
Dio si è rivelato come Vita: «Io sono la Via, la Verità, la Vita» (Gv 14, 6). E ancora Giovanni: «In Lui era la Vita, e la Vita era la luce degli uomini, e la luce ha illuminato le tenebre» (Gv 1, 4-5).
Noi non possiamo fermarci sulla fattualità, perché la fattualità bio-fisiologica è una fattualità evidentemente sottoposta a un ritmo di degrado inarrestabile. Appare come qualche cosa che può essere manipolato magari, si dice falsamente, per ottenere un incremento di questo dato oggettivo di partenza. La vita è la Vita eterna di Dio resa esperienza dell’uomo. Noi viviamo perché siamo associati alla vita di Dio e quindi è tutta la nostra umanità che viene investita dalla eternità della vita di Dio. È la persona umana, nella sua inscindibile unità-distinzione di spirito e corporeità, che entra nel mistero della vita divina. Dunque la persona umana, partecipando della vita stessa di Dio, assume un valore assoluto ed eterno. Non l’anima e basta: la totalità della persona umana, anima e corpo.
È stato agevole per il pensiero filosofico greco dimostrare l’eternità dell’anima, l’eternità dello spirito. La novità cristiana infatti non è l’immortalità dell’anima. La novità cristiana è la Risurrezione della carne. Il dogma che antropologicamente scuote da duemila anni la coscienza dell’umanità non è l’affermazione che esiste una eternità della parte spirituale dell’uomo, che non senza fatica sta a contatto con la parte fisica. La novità cristiana è che tutta la vita umana, anima e corpo, partecipa della eternità di Dio e quindi è la persona umana che entra nell’eternità. La Risurrezione della carne è la promessa che ogni singolo uomo vivrà per sempre in Dio. Per questo la vita è un valore assoluto. Come esigenza della natura è già un’esigenza di valore assoluto. Già come esigenza della ragione! Ma certamente solo nella rivelazione cristiana questa esigenza, questa apertura, questa tensione trova la sua fondazione e la sua rivelazione definitiva.
Dunque, cultura della vita significa che vivere è appartenere alla vita di Dio, partecipare alla vita di Dio; e la vita di Dio è eterna e, quindi, tutta la personalità umana è radicata nell’eterno e partecipa alla eternità di Dio.
Seconda osservazione
Seconda osservazione, alla quale tengo molto perché ritengo che si tratti di capirne bene la logica. C’è nel testo un’intuizione profonda e naturale di questa verità. C’è un’intuizione naturale di questa verità che trova, ripeto, la sua formulazione definitiva nella rivelazione cristiana che è rivelazione soprannaturale. È la rivelazione di ciò che la ragione non può negare, ma a cui la ragione non arriva. La vita dell’uomo già consapevolmente si muove verso l’eternità, perché la vita dell’uomo cerca il proprio senso. La vita umana genera cultura che serve a dare consapevolezza critica alla vita; la cultura è la vita che diviene coscienza di sé. Giovanni Paolo II ci ha insegnato che la cultura è l’atto specifico di essere e di esistere dell’uomo. L’uomo che vive cerca il senso della sua vita. Cercando il senso della sua vita è già oltre lo spazio e il tempo, è già oltre la materia, è già oltre la carne. Dunque l’uomo tende all’eterno e, in quanto uomo tende all’eterno, tende a quel punto, a quella radice – i greci lo chiamavano il fondamento – tende a quel fondamento ultimo che permane, che dovrebbe permanere eterno e che dovrebbe in qualche modo salvare la vita dal nulla. E questo hanno pensato i grandi filosofi greci.
Quindi non è vero che la rivelazione apre una strada completamente nuova. Apre una strada che è certamente nuova, ma che è singolarmente in corrispondenza con ciò che l’uomo per natura e per ragione desidera: la verità, la ricerca della verità, la ricerca di ciò che sta, la ricerca di ciò che non muta, la ricerca di ciò che è l’essere; e l’essere non può essere eguale al nulla; l’essere combatte e sconfigge definitivamente il nulla. Questo essere che sta all’origine e che sta alla fine – che deve stare all’origine e alla fine, perché se non sta all’origine e non sta alla fine ogni persona viene travolta dal nulla – è la grande questione dell’uomo, la grande questione della cultura in ogni momento.
Certamente è la questione centrale di questa nostra cultura occidentale, nella quale si sono sintetizzate in maniera singolare e sovrana la tradizione greca, la tradizione ebraica e la tradizione cattolica. La Verità è avvertita come il valore della persona: quando uno conosce la verità, sa perché vive e allora anche la sua vita è riscattata! Se non sa perché vive, diceva Giovanni Paolo II, la sua vita è ultimamente incomprensibile, priva di senso: uno mangia, beve, si alza, fa quel che vuole, ma la sua vita non è vita da uomo; è vita da uomo se conosce il senso profondo della vita. Dunque, l’uomo che usa la sua ragione è già alle prese con questa questione, è già alle prese con l’assoluto. È già alle prese con questa dimensione misteriosa, perché sa benissimo che se sta dentro lo spazio e il tempo, se sta dentro la materia, se sta dentro la carne, non ha nessuna garanzia che possa esistere per sempre. È la verità ricercata, e continuamente sperata, che impedisce la riduzione della persona ai contesti che pure la caratterizzano. L’uomo è più della sua carne e del suo corpo perché cerca Dio. L’uomo è più del contesto sociale, perché la sua vera città non è la città in cui abita, in quanto il fondamento della sua abitazione è nei cieli! L’uomo non si riduce a natura e a socialità. Se si toglie il Mistero, se si toglie la domanda religiosa, si toglie l’uomo! La domanda religiosa è domanda perfettamente razionale. Perché la domanda del senso non è innanzitutto impegno a identificare una particolare confessione diversa dalle altre. La religione come istanza profonda dell’uomo coincide con la filosofia, con il tentativo di cercare il senso ultimo delle cose. Per questo i primi cristiani, nel confronto vivo e attivo che la missione dava loro ogni giorno con il contesto greco, dicono per bocca di uno dei primi filosofi cristiani: philosophia vestra religio nostra. La vostra filosofia è la nostra religione. Ma noi dobbiamo ridare all’uomo del nostro tempo il senso di questo cammino verso l’assoluto. L’uomo esiste perché e se cammina verso l’assoluto.
Terza osservazione
Terzo passaggio, anche questo molto sentito nella mia esperienza. Questa profezia naturale, questa tensione naturale fa grande l’uomo, ma è anche una tensione che vive con la meschina, terribile fragilità dell’uomo. Vorrei che leggeste con molta attenzione il numero 14 della Redemptor hominis quella disamina sulla ambiguità dell’uomo, che riprende e rilegge la grande Gaudium et spes. L’uomo sente il desiderio dell’assoluto, va verso l’assoluto, ma ha venduto la sua primogenitura per un piatto di lenticchie. E questa immagine di Esaù è un’immagine che vergognosamente ci perseguita. Perché l’uomo che tende al mistero, poi contrabbanda il mistero con le forme più varie. E viviamo in un tempo terribile dove il senso del mistero è contrabbandato con le cose più penose e demenziali, come tutto il settarismo e il magismo che imperversa e che è diventato una parte così fondamentale della coscienza di questa Europa, ipertecnologica e ipersuperstiziosa. Come una pena terribile del contrappasso di chi si fida solo di una ragione razionalistica e poi, come dire, ingrossa le file degli imbecilli che dipendono dagli amuleti, o che dipendono da tutto un complesso di carattere istintivo od emozionale che è assolutamente inaccettabile e assolutamente stupido come fondazione e come sviluppo.
Quindi l’uomo fa fatica. Il grande S. Tommaso d’Aquino – noi aspettiamo che nasca un altro filosofo come lui – diceva: l’uomo cerca Dio e con la ragione vi arriva. Ma ci arrivano in pochi. Dopo tante ricerche, con molta fatica e con la commistione di molti errori. Per questo Dio è venuto. La rivelazione profonda sulla vita dell’uomo è il mistero di Cristo, uomo nuovo, Figlio di Dio e figlio dell’uomo. E in Lui si rivela compiutamente la verità dell’uomo: Cristo rivela all’uomo tutta la verità su di lui e la verità dell’uomo che è Figlio di Dio. È figlio di Dio come tensione della natura, ma è figlio di Dio come esperienza della presenza di Cristo, perché in Cristo diventiamo figli nel Figlio e perciò partecipiamo di quella assolutezza della vita divina che non ha fine. Ha inizio nel mistero della volontà di Dio e avrà fine non con la fine della vita fisica, ma con il passaggio della persona nell’eternità di Dio attraverso lo strappo della morte, ultima conseguenza di ciò che il peccato originale ha provocato. Siamo chiamati a non morire più. La morte è una cosa che non ci appartiene. La morte non esiste. Esiste il morire: esiste questa misteriosa, dolorosa comunione col dolore di Cristo, che renderà la nostra morte un passaggio o verso di Lui o verso il nulla.
Gabriel Marcel, una delle voci più grandi della filosofia spirituale del secolo scorso, ha tradotto in modo indimenticabile tutto questo in una sua espressione che è piena di densità filosofica e di intensità cristiana. Diceva Gabriel Marcel: «Ama chi dice all’altro: tu puoi non morire». Da duemila anni la Chiesa cattolica, in qualsiasi condizione abbia ritrovato l’uomo gli ha detto “Tu puoi non morire!”. L’abbia trovato nei lebbrosi sfigurati dalla lebbra, che soltanto San Francesco d’Assisi ha abbracciato, contestando il carattere di maledizione in cui la malattia giaceva ancora sotto il pregiudizio del pensiero greco e del moralismo giudaico; l’abbia riconosciuto nelle persone massacrate sui campi di battaglia, piccoli campi di battaglia in confronto a quelli di oggi, come è accaduto a San Vincenzo De Paolis o a San Camillo de Lellis; o l’abbia incontrato nei relitti umani di Calcutta che finalmente, grazie a Madre Teresa, potevano morire come uomini. Ma anche di fronte al ricco che crede di avere tutto e di saper tutto e di non aver bisogno della vita eterna, perché gli basta la vita piena di soddisfazioni, sazia. Insomma, all’uomo in qualsiasi situazione l’abbia incontrato, la Chiesa ha saputo ripetere, unica in questi duemila anni: tu puoi non morire, tu non sei nato per morire, tu non sei nato per diventare oggetto del nulla che distrugge ogni speranza e ogni certezza e ti consegna al nulla eterno. Tu sei nato per essere in Cristo figlio di Dio, che mangia e beve, veglia e dorme, vive e muore non più per sé stesso, ma per Lui che è morto ed è risorto per noi. E tutta questa, permettetemi, tutta questa confidenza e tutto questo andare, tutto questo ciabattare, di tanta cultura radical-chic in Europa verso il buddismo è un segno impressionante di debolezza. Perché il buddismo, anche nelle forme più dignitose, non riesce a superare questa onda di nichilismo universale nel quale si sprofonda in un nulla che nessuno può vincere, perché il nulla sta di fronte al mistero dell’essere come qualche cosa che non solo ha pari dignità, ma può anche vincere. Diceva Maritain, da grande filosofo qual era, e scriveva negli anni venti, molto prima di tanti uomini di cultura anche cattolici di oggi: «quando l’Occidente andrà dietro al buddismo, sarà segno che la cultura cristiana dei secoli della nostra età medioevale e moderna si è andata vanificando». Chi segue il buddismo, non sa più neanche cosa sono l’annunzio e la fede cristiana.
Quarta osservazione
Storicamente – e questo è importante da capire perché, se dobbiamo contrapporre la cultura della vita alla cultura della morte, dobbiamo averne le ragioni soprannaturali e naturali (primo, secondo e terzo punto) – dobbiamo esercitare una capacità critica. Non dobbiamo guardare alla modernità, che non esiste più, che non è mai esistita come la pensa certo mondo cattolico, che non è mai esistita come la pensano certi teologi, che non è mai esistita come la pensano in certi volumi, pur studiati nei nostri seminari.
Storicamente, sul nostro cammino umano e storico, così sostanziato dalla fede e così reso esperienza, così reso esperienza dalla vita della Chiesa, nessuno era fuori della Chiesa: il demente, il deforme, quello che la tecnologia moderna e lo scientismo contemporaneo vogliono sopprimere perché non è al livello che la scienza di oggi ha definito essere il livello standard della vita (ma chi dà alla scienza questo diritto di fissare il livello standard?). Per secoli i malati, i dementi, i moribondi sono stati sentiti dalla Chiesa parte viva di sé. La Chiesa ha circondato di grande venerazione e di grande devozione il debole e il malato come singolarissimo segno della presenza di Cristo. Cyril Martindale, un validissimo apologeta del secolo scorso in Inghilterra, ha scritto un libretto aureo, I Santi, in cui raccoglie in brevissimi schizzi la santità nelle varie formulazioni. Ne ha dedicato uno fra i più belli a sant’Ermanno lo storpio, un uomo di cultura del medioevo: grande musico, oltre che grammatico. S. Ermanno lo storpio pare essere l’ispiratore della Salve Regina. Quando è nato non riusciva a stare in piedi; ha potuto vivere tutta la vita perché il padre e la madre gli avevano accomodato una specie di sedia dalla quale non si è più potuto separare. È stato accolto in un convento cluniacense; è stato educato; è diventato un genio. Oggi difficilmente sarebbe fatto nascere e, semmai, sarebbe abbandonato in una delle grandi istituzioni regionali o nazionali, dove la gente vive come se non vivesse.
La Chiesa ha affermato per secoli il diritto alla vita di ogni uomo che, in qualsiasi condizioni sia per il fatto che riceve il battesimo e, al di là di esso, prima ancora perché è un’apertura e un’esigenza di incontro con Cristo, ha un valore assoluto, anche se la sua personalità fosse gravemente coartata. Bene! Su questo si è stesa, dico io, almeno negli ultimi due secoli, l’ombra della menzogna diabolica. L’uomo, la persona umana – ma si è preferito chiamarla soggetto o individuo, perché la persona umana richiamava più immediatamente la grande tradizione di fede – non ha il suo valore perché cerca Dio, o perché lo incontra nel Mistero della fede; ha valore perché è potere. Cioè “capacità di”. Secondo questa visione l’uomo è perché ha una capacità conoscitiva, ha una capacità morale, ha una capacità scientifica, ha una capacità tecnologica, ha una capacità politica. Conseguenza: se l’uomo non può, perché non ha un’adeguata conoscenza, non ha un’adeguata cultura, non ha un’adeguata capacità, è uomo ancora? È un uomo di seconda categoria, è un uomo che gli illuminati, i colti, i potenti potranno manipolare come vogliono. Il principio della manipolazione è qui. Se tutti siamo figli di Dio, anche il demente e il deforme hanno la medesima dignità del sano. Se invece siamo uomini perché partecipiamo a un certo livello standard della vita deciso dal potere del momento, chi è sotto questo livello standard della vita non è uomo. Per questo Hitler poteva autorizzare l’eliminazione dei deformi e dei malati psichici nei suoi campi di concentramento. I quali, nei confronti di quello che accade negli ospedali dei Paesi civili oggi, sono come il fai-da-te.
Le società sono segnate, in certo modo sono prodotte, da questo straordinario sforzo del potere umano. Nella cultura e nella società, l’uomo dimostra il suo potere, la capacità di possedere la realtà e di cambiarla. E particolarissimamente il potere dell’uomo sta, secondo la grande inclinazione moderna, nella creazione della società giusta; quindi nella creazione di un organismo socio-politico assolutamente scientifico. Si è chiamato Stato: Stato totalitario. Questa tensione ha creato il totalitarismo moderno, visioni scientifiche, strutture socio-politiche in cui l’uomo avrebbe finalmente celebrato il suo potere. Ma è stato vero l’opposto. Le ideologie e i totalitarismi politici non hanno celebrato il potere dell’uomo: hanno celebrato il potere sull’uomo. Il potere di alcuni potenti sulla massa di impotenti, che devono essere costretti a entrare negli schemi di coloro che, appunto, erano illuminati. Ed essendo illuminati avevano il diritto ad esercitare la violenza, per imporre le proprie visioni giuste. Per la prima volta, in occidente (non nell’Islam; l’Islam lo ha imparato tardi secondo me, nella osmosi che avviene, nonostante tutto, nelle grandi città europee e mondiali), per la prima volta in modo corretto, critico e sistematico, la violenza è diventata una virtù etica e politica nelle grandi ideologia totalitarie dell’Occidente. Il fascismo deve potersi imporre, a qualsiasi costo. Il marxismo deve potersi imporre. Perché chi non entra in questa che è la visione definitiva e totalizzante della realtà non ha diritto ad esistere dal momento che rifiuta la verità. Ci avevano già avvertito i Padri del Concilio Vaticano II, in una lucidissima frase tante volte ripetuta da Giovanni Paolo II: «in una società senza Dio l’uomo diventa particella di materia, o cittadino anonimo della città umana».
Sotto i nostri occhi si sono ormai compiute queste due manipolazioni: quella socio-politica, che sembra in qualche modo finita, ma prosegue nella grande manipolazione mass-mediatica; e quella scientifico-tecnocratica, che si compie, come avete già ampiamente testimoniato, nel silenzio e nella omertà di tutti, negli ospedali e nelle strutture dei nostri Stati civili.
Ma vale la pena di ricordare che Giovanni Paolo II proprio nell’Evangelium vitae ha detto che una società che presuma di essere democratica, ma si sostiene con leggi che sono direttamente contro la vita, il suo valore e la sua indisponibilità alla manipolazione, è una società che perde immediatamente il diritto a definirsi democratica. È ovvio che questa frase del Papa non l’ha ripetuta nessuno, neanche i politici di stampo cattolico.
Quinta osservazione
Quinto e ultimo punto. Oggi, questo uomo – che il Papa ha definito nel 1982, nel suo straordinario incontro al Meeting dell’amicizia tra i popoli, annichilito ma non distrutto – che la modernità ha reso quasi nulla, non ha più fiducia neanche nella ragione (irrazionalismo, scetticismo, problematicismo) e non ha quasi più nessun valore per vivere (nichilismo). Questa uomo è annichilito ma non distrutto, perché l’uomo contiene in sé una particella di Dio che solo Cristo rivela. A questo uomo annichilito ma non distrutto la Chiesa di nuovo propone in modo inesorabile e pertinente che solo Cristo e la sua misteriosa presenza nel suo Corpo mistico – la Chiesa – è la condizione della sua verità e del suo valore assoluto. Così il Vangelo della salvezza diviene indisgiungibilmente il Vangelo della vita, della vita umana, quindi anche della vita fisica, che ha un valore assoluto, dal suo sorgere al suo compiersi e che non può sopportare nessuna manipolazione, per nessun motivo. La Chiesa dunque non può vivere la sua missione, proclamare la verità della redenzione, senza affermare il valore assoluto della vita umana e in forza di questa certezza giudicare tutte le formulazioni ideologiche, giuridiche, sociali e politiche. Vi ringrazio.
Fonte: federvitapiemonte.it