
Pubblichiamo l’omelia di mons. Luigi Negri in ricordo di CLAUDIO CHIEFFO (9 marzo 1945 – 19 agosto 2007) e di don FRANCESCO VENTORINO (12 febbraio 1932 – 17 agosto 2015), pronunciata a Forlì il 19 agosto 2015.
Sia lodato Gesù Cristo!
Ci sono molti punti di contato fra le due personalità che ricordiamo con commozione, con gratitudine e nostalgia. Sono stati tutti e due, sia Claudio sia don Ciccio, operai della prima ora che, tuttavia, quando è venuto il momento non se la sono presa con Dio perché li ha pagati meno degli altri. Sono stati operai della prima ora il cui vanto era di servire, era il vanto della loro vita e il vanto delle loro giornate, era affermare nella loro esistenza una presenza che precedeva non soltanto quello che facevano ma anche quello che erano.
La presenza che precede la nostra vita è l’unica cosa che dà pace, perché radica l’esistenza umana – che sarebbe altrimenti in balia delle circostanze e delle reazioni – sulla pace che è Cristo. Questo è il primo vero e grande motivo di gratitudine al Signore per il grande dono che ci ha fatto in loro.
Sono stati uomini di pace perché uomini di fede in Cristo. Ma dove abbiamo incontrato Cristo? Cristo lo abbiamo incontrato nella misteriosa e concreta esistenza di un popolo appartenendo al quale ogni giorno si apriva la nostra vita al Suo mistero e la nostra vita si modulava come testimonianza e missione: testimonianza della presenza di Cristo e missione di Lui nelle varie situazioni.
Le stagioni di Claudio sono iniziate con il suo cammino alle scuole medie superiori e non si sono interrotte fino alla fine.
Le stagioni di don Ciccio sono iniziate quando, giovanissimo e coltissimo sacerdote, venne in vacanza due giorni alla vecchia GS di Milano, e lì capì che tutto quello che aveva vissuto o fatto, tutta la consapevolezza di cristiano e di prete, doveva essere riformulata totalmente a partire da un evento storico che fu l’incontro con don Giussani e attraverso di lui con la realtà della Chiesa.
Ciò che importa è che le stagioni siano permanentemente guidate dall’incontro e dalla coscienza dell’incontro, ovvero la coscienza bella e quotidiana che la vita ha un valore assoluto perché è affidata al mistero del Signore. Per questo non si poteva trovare una preghiera che rispondesse di più ai sentimenti e alle intuizioni del nostro cuore come quella che ci ha suggerito la liturgia e che io considero la preghiera cattolica per eccellenza. È una preghiera in cui si rivela la genialità che accomuna i cristiani nella fede perché chiede che ci venga dato un atteggiamento di amore che ci consenta di amarlo in ogni cosa e sopra ogni cosa, perché Cristo lo si ama nella concretezza dell’esistenza, nell’ambiente, nella cultura e nella società.
Il senso dell’amore, nell’amare le cose della vita, sta nel fatto che in queste cose noi amiamo il Signore che dà senso a tutte le cose e, amandolo in ogni cosa e sopra ogni cosa, otteniamo il compimento delle sue promesse che superano ogni desiderio.
Lo squarcio di vita che ciascuno di noi evoca ricordando Claudio e don Ciccio, è proprio uno squarcio di vita in cui – nella buona e nella cattiva sorte, nella salute e nella malattia, nella gioia e nel dolore – si è affermata prepotentemente l’energia di Cristo risorto che cambia la vita e la rende eterna. La vita eterna viene da dimensioni della vita quotidiana: ecco, questo è il paradosso della vita cristiana.
Quando si soffre nel corpo – come è successo ad entrambi negli ultimi anni della loro esistenza, o quando si soffre moralmente per le ingiustizie subite o si è stati in qualche modo responsabili – e più in generale nell’esperienza del dolore, appare chiaro che la questione fondamentale è l’amore al Signore nelle cose e sopra alle cose. Perché soltanto amando il Signore nella realtà di ogni giorno la vita quotidiana si apre e diventa un sentiero per incontrarlo sempre più profondamente e per sperimentare la sua presenza che è cambiamento reale della vita stessa. Questo ci sostiene oggi e per questo è una memoria, e la memoria dei nostri fratelli santi è come la vita di ogni giorno lieta e sacrificata. Lieta perché quando li evochiamo ci investe la grande letizia della positività, e sacrificata perché la compagnia con loro soffre l’esperienza dolorosa del distacco.
Questa sera abbiamo la consapevolezza profonda che sia Claudio sia don Ciccio ci aiutano a camminare. Evocare la loro presenza, evocare anche concretamente la loro memoria, le cose grandi che ci hanno dato – sul piano artistico o sul piano intellettuale – ma più profondamente, sia per l’uno come per l’altro, una testimonianza di un amore appassionato all’umanità di ciascuno di noi, perché non si poteva incontrali senza sentirsi al centro della loro vita, della loro attenzione, del loro cuore e del loro sguardo. Tutto questo oggi ci sostiene in un cammino faticoso di testimonianza dentro la Chiesa e dentro la società.
È un movimento di vita faticoso perché le circostanze ecclesiali e sociali in cui siamo chiamati a vivere, rendono ancora più difficile la quotidiana appartenenza al mistero di Cristo e alla sua Chiesa, ma i santi ci accompagnano.
Sono questi i nostri fratelli maggiori nella fede, coloro che sono arrivati alla fine del cammino quotidiano e ci mostrano oggi, nello spaccato della loro vita, tutta la loro grandezza e tutto il faticoso cammino che anche loro hanno dovuto compiere perché la fede investisse realmente la loro vita e la trasformasse secondo gli intendimenti del Signore.
Ecco, così si rivelano capaci di aiutarci in questo cammino che abbiamo ricevuto in Cristo e dal quale non possiamo ometterci, come dice la Lettera a Diogneto scritta tanti secoli fa: a noi il Signore ha affidato una cosa che non possiamo assolutamente abbandonare.
Così sia.