L’Avvento ci fa camminare verso il Natale (TESTO e 5 PODCAST)

Nella ricorrenza dell’ottantatreesimo anniversario della nascita di mons. Luigi Negri (26 novembre 1941), pubblichiamo i podcast del ritiro di Avvento tenuto da lui, il 25 novembre 2018, per un gruppo di persone della Fraternità di Comunione e Liberazione. Di seguito trovate l’audio, suddiviso in cinque parti, e la sua trascrizione (sistemata come lo stesso mons. Negri aveva predisposto per la sua diffusione tra i membri della Fraternità). In fondo alla pagina è possibile comunque trovare il link alla versione integrale dell’audio in un unico podcast, oltre che il PDF del testo.


INTRODUZIONE – La virtù del cristiano è la gratitudine

Ci inoltriamo in un nuovo anno della fede e della Chiesa, un nuovo anno dove la Chiesa comincia a percorrere, o meglio, a ripercorrere il cammino del Signore, dietro di Lui, per immedesimarsi nella sua vita e per giungere alla piena esperienza di ciò che in Lui è già avvenimento definitivo: la vita nuova che viene donata a tutti coloro che credono.

La fede peraltro è l’esperienza di una libertà che si dona: la libertà è necessaria perché si sviluppi la fede; perché maturi; perché investa la nostra esistenza; perché le dia un assetto nuovo. A Ferrara usano spesso l’espressione “sagoma” o “sagomata”. La fede dà una sagoma nuova alla vita dell’uomo.

Siamo stretti (e la cosa non ci provoca assolutamente disagio – almeno per quando posso dire a partire dalla mia esperienza) da un passato che, quando lo guardiamo, ci colpisce per la grandezza che ha avuto. Dio ci ha dato una vita grande e, in questa grandezza, le luci sono gli incontri, sono le persone. Quanto più guardiamo il nostro passato, tanto più lo vediamo gremito di una ricchezza umana che certamente non abbiamo meritato e che ha influito in modo determinante sullo sviluppo della nostra persona. Quando passo in rassegna la mia esistenza – come ho tentato di fare nel libro La sfida. Un viaggio della fede da Giussani a Ratzinger – mi colpisce la grandezza di incontri che il Signore aveva predisposto sulla mia strada, fin dai tempi delle medie inferiori, via via… su fino all’avventura strepitosamente impegnativa ma grande dell’episcopato.

La nostra vita è ricca degli incontri e credo che per tutti, con la differenza di età che esiste, viene il momento in cui dobbiamo pensare al nostro passato per andare alla ricerca degli incontri che ci hanno più significativamente coinvolto, che ci hanno dato di più. È per questo che siamo grati. La virtù dell’uomo maturo e del cristiano maturo è la gratitudine. Mi diceva il card. Biffi, in uno degli ultimi incontri con lui – pensate che ho avuto per qualche anno l’avventura o la grazia di potermi confrontare con lui sulle cose più gravi della mia vita, (e Dio sa che ce n’erano di gravi ad ogni angolo), mi diceva: «Negri, la gratitudine è una virtù rara, che sta scomparendo perché la virtù è in proporzione diretta con l’intelligenza, prima ancora che con la fede». Perciò, quella che stiamo vivendo, è una crisi di intelligenza e di fede insieme che ci rende così estranei, così impacciati, così incapaci di vedere la grazia di Cristo all’opera nella vita nostra, nella vita della Chiesa, nella vita del mondo. Siate grati. Quante volte San Paolo torna su questo tema; quante volte… infinitamente; quante volte San Paolo dice “siate grati” perché Dio ci ha salvato.

La parola che evochiamo questo pomeriggio, guardando il cammino verso il Natale, verso il Signore che viene, non è un’impossibile attesa, come se Cristo non fosse ancora venuto. È piuttosto il desiderio di penetrare nel mistero di Cristo per comprenderlo sempre di più. Non si può lanciare sull’evento della fede un dubbio. L’unica possibilità di fronte alla fede è immergersi in essa con umiltà totale perché la fede ci possegga. Vedremo subito che la grande alternativa è fra chi si fa possedere dalla fede e chi vuole possedere la fede. Chi si fa possedere dalla fede attende sempre di nuovo la Sua rivelazione, attende sempre di nuovo la Sua venuta, perché Egli deve ancora venire proprio perché è già venuto. E noi viviamo stretti fra il primo avvento – quello dell’incarnazione del Verbo di Dio nella carne mortale di Gesù di Nazaret – e l’ultimo avvento – quando Egli verrà come giudice di coloro che hanno vissuto la vita con fede e di coloro che l’hanno vissuta come un’affermazione di sé. Allora ci sarà inevitabilmente una separazione fra coloro che hanno obbedito e coloro che hanno disobbedito, fra coloro che hanno amato la presenza di Cristo più di sé stessi e coloro che hanno amato sé stessi più della presenza di Cristo. Se sentite questo come troppo rigido o troppo schematico, mi dispiace per voi. Questa è la fede cattolica. La fede cattolica è una novità di vita che investe e cambia l’uomo nella misura della sua apertura di fede.

L’Avvento! Perché l’Avvento? «Sono venuto e ti ho salvato». Nessun cristiano può dubitare di questo. Un cristiano che dubita di questo si tira fuori dalla Chiesa e, quindi, dalla fede. Sei venuto e mi hai salvato in un modo tale che io posso continuamente chiederti di venire a salvarmi: «Dio, vieni in mio aiuto». L’inizio di quasi tutte le preghiere ufficiali della Chiesa, con il Deus in audiutorium meum intende, dice che il fondo della nostra posizione intellettuale e morale è la certezza che Egli ci salva e il desiderio di capire sempre di più, di partecipare sempre di più a questa salvezza.


PRIMA PARTE – Un rinnovamento continuo della fede

I suggerimenti che abbiamo ricevuto (dal Movimento), come spunti per questo ritiro, mi sono sembrati molto positivi e molto provocanti, pedagogicamente significativi, capaci di mettere positivamente in discussione la nostra fede perché la nostra fede maturi. Bisogna che la fede vada in crisi, cioè si comprenda sempre di più, venga compresa sempre di più in modo da essere un’esperienza di vita da potere approfondire e comunicare. Questo è l’uomo cristiano: uno che fa un’esperienza di una novità di vita che lo matura sempre di più e lo spalanca alla missione. Una fede che non diventa missione non è fede cattolica e non sapremmo che farcene. È infatti questa una delle ragioni della crisi della fede di oggi. Non sapremmo cosa farcene di una fede che rimane nello spazio della coscienza privata, dando qualche spunto di auto-gratificazione. (Secondo questa impostazione) la fede è una cosa di cui si gode e, mentre si gode, sostanzialmente l’idea è che te la sei data tu, che sei tu che ti cambi. Mentre la certezza del cristiano è che la fede ti è stata donata il primo giorno e ti viene ridonata ogni giorno nella misura nella quale tu la chiedi con umiltà.

C’è un brano straordinario di san Carlo che è veramente il cantore dell’Avvento: la prima lettera pastorale di san Carlo Borromeo al suo popolo di Milano. Allora, san Carlo dice più o meno così (citazione a memoria non letterale): «Bisogna che fra il primo Avvento e la venuta gloriosa del Signore come giudice (giudice… non so chi ancora, nella Santa Chiesa di Dio, ha il coraggio di dire che Cristo è giudice) ci sia l’Avvento nel quotidiano». Cioè l’Avvento è l’esperienza nella quale chiedere – perché così si attua – un rinnovamento continuo della fede, un approfondimento continuo della fede, una maturazione continua della fede. È la fede che deve rinnovarsi nella vita del cristiano; è la fede che deve riprendere come da capo; è la fede che deve rinnovarsi perché non si sclerotizzi, non si irrigidisca. L’Avvento è l’aprirsi alla dimensione del rinnovamento della fede nella nostra vita e bisogna chiedere che questa dimensione accada, che questa dimensione viva continuamente; bisogna chiedere che l’esperienza della vita sia l’approfondimento della certezza che siamo già stati salvati. La vita ci è data nel suo cammino – lieto o meno lieto, maturo o meno maturo – per approfondire la salvezza che ci è stata data. La vita ci è data perché – nella varietà delle circostanze, degli incontri, delle difficoltà, delle fatiche, delle gioie o dei dolori – maturi in noi la consapevolezza della salvezza e questa maturazione fiorisca in noi come un’intelligenza nuova e un cuore nuovo.

L’Avvento ci fa camminare verso il Natale con la certezza che c’è già in noi un’intelligenza nuova e un cuore nuovo. E mentre camminiamo verso il Natale chiediamo al Signore che compia in noi quello che ci ha già dato, che maturi in noi quello che ci ha già dato.

L’Avvento è, quindi, un cammino di approfondimento per comprendere sempre di più la grazia che ci è stata fatta e ripeto – ci sarà pure una ragione della grande differenza di età fra la maggior parte di voi e me – guardare il passato vuol dire contemplare gli incontri. La nostra vita è stata ricca di incontri. Da un lato, dunque, contemplare e riprendere gli incontri e scrivere sempre una nuova pagina di gratitudine. Dall’altro bisogna guardare a dove si va: si va certamente nelle braccia di Cristo, anche se questo a volte avviene attraverso un vero e proprio strappo. Il grande cardinale Giovanni Saldarini, che è stato mio professore ai bei tempi del seminario di Venegono, ad esempio, quando ci spiegava l’escatologia, la storia degli ultimi, diceva parlando sempre rigorosamente in dialetto, così: «Bagaj, la mort l’è una roba bellissima perchè si va en brasc al Signur. Ma murì, l’è una roba de can». L’avrà detto centinaia di volte.

È la consapevolezza, dunque, fratelli miei, di essere stati salvati, di aver fatto un cammino dentro questa salvezza. E oggi desideriamo comprenderla di più. L’Avvento alla nostra età vuol dire comprendere di più il Natale. Aspettare il Natale non come se il Natale dovesse arrivare perché non c’è mai stato; l’unica cosa che non c’è ancora è una consapevolezza chiara in me di quello che è accaduto. L’unica cosa che deve accadere, che devo chiedere, è di capire il mistero che mi è stato comunicato. Il dubbio non è sull’evento. Il dubbio sull’evento è una mancanza di fede che Dio punisce sempre, qualunque sia il modo con cui travestiamo questa cosa. Il dubbio sulla fede è un peccato. Mentre attendere, camminare, lavorare per capire sempre di più è la virtù della vita cristiana. La virtù della vita cristiana è chiedere al Signore di comprendere sempre di più ciò che ci è stato già dato, ciò che viviamo di già, al di là della approssimativa consapevolezza di adesso. Perciò la vita è un cammino per una conoscenza sempre meno inadeguata i Cristo.

Tutto questo nella tradizione della Chiesa si è sintetizzato in maniera implacabile in quella che è stata per secoli quasi l’unica preghiera della Chiesa, per almeno due o tre secoli: maranatha, vieni Signore Gesù. Prima dell’Ave Maria e del Padre Nostro, … prima che lo cambiassero cervelloticamente la Chiesa ha vissuto per almeno due secoli di questo respiro: Vieni, Signore Gesù!

Noi dobbiamo recuperare, amici miei, la freschezza della fede come un sentimento profondo di noi. Cosa vuoi tu dalla vita? Cosa vuoi tu dalla vita con tutto quello che ti è stato dato, con tutti i limiti, con tutte le fatiche, con tutti i tradimenti? Sono presenti nella nostra coscienza i volti del nostro ateismo. Non siamo di quelli che dicono che Dio non esiste anche perché, se uno dicesse che Dio non esiste, dimostrerebbe poca intelligenza. Nella storia cosiddetta della cultura elevata della filosofia, non si conosce nessuno che abbia cercato di dimostrare la non esistenza di Dio – insegnava Bontadini – ad eccezione di uno solo che ha detto che bisognava fare morire Dio, ma è finito in manicomio, Nietzsche. L’ateismo non è la negazione formale di Dio. È la scelta – invece di Dio – di ideali, di immagini, di atteggiamenti, di progetti, di obiettivi che carichiamo della stessa forza con cui dovremmo caricare la coscienza del nostro rapporto con Dio. L’idolatria. L’ateismo non è la negazione di Dio, ma la sua sostituzione con l’idolatria, cioè il far fiorire nella vita nostra personale e sociale una serie di avvenimenti o di fatti ai quali diamo la stessa fiducia che dovremmo dare al Signore. Questo è il tradimento: conferire a una esperienza umana a cui teniamo per tante ragioni un valore assoluto. Anche qualcosa di buono come il rapporto con il padre e la madre può diventare qualcosa di idolatrico, se la famiglia non porta ad aprirti al Mistero, se non ti educa all’incontro, se non ti aiuta a camminare verso una comprensione adeguata di ciò che ti è accaduto perché la tua vita sia un’apertura e un cammino e non una chiusura. Della fede non si gode come di un possesso. È per questo che il Signore ha preso la frusta per buttare i mercanti fuori dal tempio perché traducevano la fede in un possesso.

Assieme al pericolo ateistico della traduzione della fede in un possesso ce ne è un altro, non meno infame: tradurre la fede in un discorso che si possiede una volta per sempre, tradurre la fede in un messaggio umano, storico; un messaggio che può essere interpretato dagli esegeti. Se il messaggio di Dio è un messaggio, sono gli esegeti, i biblisti, gli intellettuali a diventare determinanti nella vita della comunità. Tuttavia, non così Cristo ha concepito la sua Chiesa, perché l’ha concepita come un popolo guidato: ciò che abilita la guida è l’ordine sacro e ciò che lo fa accadere è la scelta diretta e personale di Dio per la persona singola. La comunità è un popolo guidato al destino, diceva Giussani. Guidato vuole dire che c’è una guida che sa portare al destino. La Chiesa non è una raccolta di uomini che nasce dalla loro iniziativa. Benedetto XVI ha avuto degli sprazzi di ironia incredibile nel confutare quest’idea: «La Chiesa non comincia con il “fare” nostro, ma con il “fare” e il “parlare” di Dio. Così gli Apostoli non hanno detto, dopo alcune assemblee: adesso vogliamo creare una Chiesa, e con la forma di una costituente avrebbero elaborato una costituzione» (Benedetto XVI, Meditazione al Sinodo sull’evangelizzazione, 8 ottobre 2012). Purtroppo la maggior parte dei cristiani di oggi pensa al popolo di Dio più in questo modo che in quello nel quale andrebbe pensato. Gli Apostoli, che erano radunati, hanno chiesto al Signore che li aiutasse ad approfondire la grandezza della gioia che avevano ricevuto per capire di più la salvezza. Si sono spalancate le porte ed è venuto lo Spirito Santo di Dio senza il quale non nasce nulla di buono nel mondo, nella vita del cristiano e nella vita della Chiesa. Lo Spirito è venuto e ha reso il Signore risorto presenza, aiutando i figli di Dio a riconoscere questa presenza. La Chiesa è nata così. La Chiesa è fissata là dove un brano del popolo di Dio segue una guida che gli è stata data e questa guida lega la piccola porzione di popolo, che si raduna lì, alla grande unità della Chiesa, facendo respirare la piccola comunità del grande respiro della Chiesa. Noi abbiamo venerazione per il nostro Vescovo ma insieme abbiamo venerazione per il Papa e non possiamo considerare queste due dimensioni se non come due parti dell’unico mistero.

Questa è secondo me la fonte della nostra letizia e della nostra gratitudine: noi ricominciamo ogni mattina la vita con letizia perché il Signore vive e facciamo l’esperienza reale della vita del Signore.


SECONDA PARTE – La fede nasce e prosegue come un evento

Detto questo, bisogna cercare di capire come l’avvenimento della fede di Cristo maturi perché l’avvenimento della fede è un talento. Per usare immagini bibliche può essere paragonato a un po’ di sale che dà sapore al mondo; è qualcosa che ha la capacità di mobilitare persone e cose, in quanto la fede genera un movimento della vita, un movimento dell’intelligenza e del cuore. Questa fede è cominciata come un incontro: all’inizio, pur nella traiettoria della grande storia dell’antico popolo d’Israele, è accaduta una cosa nuova. Pur essendo fondamentalmente radicato nella storia del popolo d’Israele, Gesù Cristo ne sporgeva in maniera irriducibile. Cristo non è il più grande dei profeti. Tentarono, cercando di capire chi era, lo paragonarono a san Giovanni Battista, ecc… favorendo per certi aspetti la comprensione ma per altri hanno confuso. Ma Gesù Cristo era una cosa unica; è stato l’evento di Dio nella vita di quelli ai quali ha parlato. Ci sono alcuni brani del Vangelo che dovremmo poter respirare ogni giorno, come la primissima predicazione di Gesù in Galilea, dopo che Giovanni fu arrestato, così come la raccoglie l’evangelista Marco (amico di Pietro e poi a fianco di Paolo nei suoi viaggi, quindi una sintesi di Pietro e di Paolo): «Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo”» (Mc 1,14). Quello che nella grande storia del popolo d’Israele era atteso e quello che, senza saperlo, attendevano anche i pagani, come insegnerà subito Paolo azzerando la differenza fra gli eredi del popolo d’Israele e i cosiddetti pagani o gentili, è accaduto: «il regno di Dio è venuto, convertitevi e credete al vangelo». Il regno di Dio venuto era proprio Lui che parlava e poi, nel percorso degli anni e dei secoli, è stata la presenza continua di uomini che, legati ai primi, hanno continuato ad annunciarlo.

La Chiesa cosa è? La Chiesa è questo evento, a meno di ridurla a un folclore o a una scenografia folcloristica come spesso avviene grazie all’atteggiamento dei media che finiscono spesso per interessarsi alla Chiesa proprio perché essa stessa rischia di abbassarsi a un fattore del mondo. Come giudicare altrimenti le immagini della sfilata di moda, avvenuta alla presenza di cardinali, con le modelle, che mostravano molto di quello che non doveva essere mostrato, con addosso paramenti sacri della Chiesa, usati dai Papi dei secoli scorsi, avvenuta al Metropolitan Museum di New York? Paramenti sacri concessi da qualche cardinale come segno di apertura al mondo. Un segno di interessamento del mondo alla Chiesa. Pensate dove si può arrivare: il mondo si interessa della Chiesa perché prende le sue vesti? Chi ha fatto una pensata così ritiene magari di essere un genio della comunicazione. La Chiesa non può abbassarsi al livello del mondo; non può ragionare come il mondo. Invece la difficoltà oggi è esattamente questa: se dobbiamo indicare il fattore di crisi della Chiesa in cui viviamo, esso è proprio la tentazione di assumere criteri mondani per valutare sé stessa e il mondo. Mentre si comprende la fede soltanto se si rimane nel movimento che è nato da Cristo e che continua nella Chiesa, ovvero l’esperienza di un popolo che non ragiona più secondo il mondo ma ragiona secondo la fede.

Ora proprio per questo occorre cercare di capire cosa si sia provocato in chi ha creduto nei primi momenti e, quindi, come quello possa continuamente essere rivissuto. Quello che è iniziato deve continuare, perché quello che è iniziato è la fede in me e, se non va avanti in me, in modi sempre nuovi, la fede si ferma: «Certo il Figlio dell’uomo se ne va, com’è scritto di lui, ma guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo è tradito! Meglio sarebbe per quell’uomo se non fosse mai nato!» (Mc. 14,21). Queste sono certamente, con buona pace del capo dei Gesuiti, parole dette da Cristo e si rivolgono a Giuda, al di là di tutti i tentativi, che mi auguro si fermino, di rivalutare cristianamente la sua figura.

Che cosa succede nell’uomo che sente la fede, che ama la fede, che vuol crescere nella fede, cioè che vuol comprendere sempre di più quello che gli è stato dato? Sentite cosa dice Giussani nel 1982 (agli Esercizi della Fraternità): «All’inizio si costruiva, si cercava di costruire su qualcosa che stava accadendo e che ci aveva investiti. Per quanto ingenua e smaccatamente sproporzionata fosse, questa era una posizione pura (si cercava di vivere quello che ci era accaduto nella vita quotidiana: il mangiare e il bere, il vegliare e il dormire il vivere e il morire; più integralisti di così si muore; non sfuggiva nulla, perché alla fede non sfugge nulla. Se qualcosa sfugge programmaticamente alla fede, allora la fede non è vera; se la fede non c’entra con la politica, se la fede non vi da criteri per affrontare le circostanze della vita, allora di una fede così non ci interessa nulla]. Per questo, per averla come abbandonata, essendoci attestati su una posizione che è stata innanzitutto, starei per dire, una “traduzione culturale” piuttosto che l’entusiasmo per una Presenza, noi non conosciamo – nel senso biblico del termine – Cristo, noi non conosciamo il mistero di Dio, perché non ci è familiare» (Luigi Giussani, Una strana compagnia). State attenti è un passaggio straordinario e ogni generazione cristiana, anche le più avvedute come la vostra, si trova di fronte a questo problema perché l’avvenimento di Cristo vive sempre in un contesto, non entra nella storia come un meteorite. Cristo ha avuto un contesto: i suoi parenti, quelli che lo hanno seguito; ha avuto un contesto tanto che la sua presenza era così legata al contesto che il seguire il contesto era praticamente seguire Cristo, come quando ci si imbatteva negli Apostoli, mandati a due a due da Gesù. Anche quando si incontrava qualcuno che non era dei dodici, ma scacciava i demoni e faceva miracoli in suo nome. Lo stesso Gesù, di fronte alle perplessità dei dodici, dice di lascarglielo fare: «Non glielo proibite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. Chi non è contro di noi è per noi» (Mc. 9,39). È come se dicesse: “non preoccupatevi, lasciate che ognuno viva il suo compito nella nostra compagnia”. Il mistero nasce come evento e prosegue come evento.


TERZA PARTE – I pericoli che corriamo

Quindi per vivere bene il periodo d’Avvento dobbiamo tenere presente i pericoli che corriamo e cercare di capire quale sia la soluzione.

Primo pericolo: “Io so bene quello che mi è accaduto perciò ne conosco l’andamento e la logica profonda”. Potremmo dire, usando un termine che ha un certo significato anche se non è precisissimo, che la fede è ridotta a un’ideologia, ovvero a una serie di valori ideali, a una serie di suggerimenti pratici; è ridotta a un discorso nel senso pregnante della parola, a una visione organica della realtà che fa riferimento a Cristo, ma come a un passato, come a un evento che si è concluso. Secondo questa impostazione, chi lo volesse incontrare ha il problema di mettersi veramente in contatto con Cristo perché non sa cosa vuole dire incontrarlo, non sa come lo si incontra. Se Cristo è semplicemente l’autore di un discorso, allora sarebbe finito, perché non c’è nessun discorso che possa pretendere di valere come evento; al massimo rimarrebbe bloccato nelle pagine di un libro sacro diventando oggetto di una permanente interpretazione. Tuttavia, non sarebbe una vita, perché un libro non è una vita; un discorso non è una vita; il dialogo e la dialettica sulle interpretazioni non sono una vita. Invece, Cristo è stato un incontro reale che andava bene per i maestri di Israele, come andava bene per i bambini piccoli con i quali poteva fermarsi a giocare; Cristo è un evento di vita mentre un discorso non è un evento di vita, perché sclerotizza tutto. Allora la prima tentazione che bisogna vincere è la riduzione dell’evento di Cristo a un discorso. Cristo non è una cosa che si sa, ma che si vive e, nella misura in cui si vive, lo si può conoscere; tuttavia, se lo si conosce, senza incontrarlo e senza viverlo, non è l’esperienza della fede che avviene ma piuttosto il risultato di una ideologia. Quindi il primo pericolo è quello di tradurre la fede in una cosa che si sa.

Secondo pericolo: fare dell’evento di Cristo una realtà lontana, estranea che non morde l’esistenza, che non cambia il cuore. Questo è pagato gravemente da noi cristiani perché è la radice dell’estraneità fra di noi. Si tratta, forse, della cosa più terribile e più diffusa. L’estraneità fra di noi non nasce da qualche difetto particolare di temperamento, ma dalla riduzione dell’avvenimento a discorso, il quale divide. La Chiesa si trova così divisa tra chi capisce bene tutte le cose, o almeno crede, e in base a questa presunta intelligenza pretende di avere dei ruoli, e chi non è in grado di capire. Ai tempi del Concilio Vaticano II, tanto per dire le cose con chiarezza, c’è stato un terribile tentativo di cambiare il DNA della Chiesa e perciò di trasformare un popolo in una accademia che aveva i suoi maestri, che erano già pronti. Come ho raccontato anche nel libro La sfida. Un viaggio della fede da Giussani a Ratzinger, Paolo VI, verso il quale il popolo di Dio deve avere una gratitudine immensa, batté i pugni sul tavolo e chiamò i “capi” di questa fronda che cercava di ridurre la fede a un’accademia e disse loro di andarsene. È stata una battaglia radicale che Paolo VI ha combattuto e vinto, ha avuto un coraggio gigantesco.

Mi soffermo sulla questione dell’estraneità e dell’impaccio nei rapporti. Io vorrei sottolineare una cosa che sento moltissimo perché l’ho vista dentro la nostra comunità come una minaccia, come una minaccia gravissima: la priorità del possesso tra di noi. Un uomo consiste in quello che possiede e anche ciascuno di noi crede di consistere in quello che possiede, cioè ciascuno di noi non è capace di rinunciare a un possesso legittimo per una ragione più grande e l’unica ragione più grande della giustizia del possesso è la carità. Ci sono dei possessi che non si mettono in discussione mai, economici, psicologici, affettivi; tutto può essere messo in discussione meno queste cose. La fede c’entra con tutto, diciamo a voce, ma quando la fede – utilizziamo una figura significativa di papa Francesco – può avere il volto della gente che ti chiede aiuto, ovvero il Signore che ti chiede, non è poi così vero che la fede c’entri con tutto. Sia chiaro non bisogna fare l’identificazione, pericolosa teologicamente, per la quale i poveri sono il volto di Cristo – io non lo faccio perché non ci credo e non è vero teleologicamente –, il volto di Cristo è legato ad alcune strutture sacramentali fondamentali che passano attraverso la sua morte e la sua risurrezione; quindi il volto vero di Cristo è, semmai, incontrabile recuperando tutti fattori della sua presenza e, soprattutto, riconoscendolo dove si fa riconoscere; il volto di Cristo è il volto della Chiesa. Ma capite cosa vuole dire questo? Vuole dire che di fronte a questa realtà come apertura di cuore non ci deve essere niente che vale più di questa cosa. Il vertice della vita cristiana è la carità e la carità è la disponibilità della mia vita all’aiuto all’altro, per come posso certo, per quello che sento, perciò nessuno giudichi il fratello, ma non si può partecipare alla vita della Chiesa senza mettere continuamente in discussione, nella vita della Chiesa, i nostri possessi misurandoli con i bisogni della Chiesa. Io credo che questa sia una cosa che dobbiamo considerare tutti.


QUARTA PARTE – Considerazioni conclusive

E da ultimo, che cosa è che dobbiamo fare, dopo questa disamina così acuta che è legata all’Avvento? Andate a Messa alla domenica e cercate di seguire la liturgia dell’Avvento, perché non c’è niente di più grande nella letteratura di tutti i tempi che la liturgia e, in particolare la liturgia dell’Avvento, che utilizza per la coscienza della fede, anche tutti i contributi della vita della storia e della cultura storica. Allora cosa dobbiamo fare? Dobbiamo vivere la fede come un incontro che prosegue, una vita che continua e che mi raggiunge e mi dice “se vuoi vienimi dietro”. Alcuni di noi, solo alcuni anni dopo, hanno capito che la prima frase che Giussani rivolgeva a noi ragazzi del Berchet, “se vuoi vienimi dietro”, era la frase di Gesù perché siamo venuti alla fede dai contesti più diversi, spesso senza grandi preparazioni, anche quelli che venivano da famiglie cattoliche. La fede è un cammino, è un aggregarsi a un popolo che cammina, che è in marcia, che affronta la vita in questa certezza, che vive la novità della vita in questa certezza e, vivendola così, non la tiene per sé. Nell’Avvento appare già la parola missione perché, se non fosse così, non saremmo nella fede cattolica, bensì nella chiesa del dialogo, dell’impegno ma non nella Chiesa di Cristo, che è un evento che si approfondisce e si comunica. Tale evento interessa quelli che ci accostano, che facciamo entrare nella nostra compagnia e che sentiamo nostri come se fossimo nati con loro e loro con noi.

La soluzione di tutti i problemi che abbiamo aperto oggi, meditando sull’Avvento, è una sola: che la comunità sia un’esperienza di vita perché in questo modo cambia la nostra vita e ci spalanca alla vita dei nostri fratelli uomini. Allora chiediamo che nei nostri rapporti, segnati dalle difficoltà, nessuno di noi possa sentirsi giudice, ma che venga prima la carità. Anche quando ci fossero problemi gravi, prima di mettere in campo gli avvocati e le lettere di intimazione, che possono essere dettate anche da motivi giustissimi, occorre capire cosa è prioritario. Non sto dicendo che siano necessariamente cose sbagliate, sto solo individuando una traiettoria, un prima e un poi: per noi non è mai prima la giustizia ma la carità, che non elimina la giustizia, ma che la fa vivere con più distacco. Il problema è che la vita non si risolve nei diritti dell’uno e dell’altro, nella giustizia dell’uno e dell’altro; io credo che questo sia un grande insegnamento che dobbiamo imparare dal riconoscimento che la presenza di Cristo è il tutto per noi. Nella misura per la quale è il tutto, non c’è altro al di fuori di Lui; il padre e la madre sono una cosa importante ma non possono avere il peso di Cristo nella vita. Se non è così, è perché c’è qualcosa che non va, perciò occorre chiedere questa purità di cuore. Dobbiamo chiederci se siamo capaci di vivere nella fede e basta, altrimenti possono esserci delle distorsioni che possono influire anche su un aspetto di per sé sanissimo. Tuttavia, se Cristo è tutto, è Cristo che è tutto e non altro. Amici, stiamo attenti perché, se noi riduciamo la portata della fede nella nostra vita, non siamo migliori degli altri. Se riduciamo la portata della fede, dobbiamo attaccarci a qualcosa d’altro che finisce per avere il peso della fede, ma allora la fede viene espulsa dalla nostra vita.

La fede è un incontro e continua come incontro. Cosa siamo insieme a fare noi che abbiamo certamente anche tanti motivi di solidarietà? Normalmente questi motivi di solidarietà nella vita della società coincidono con il fatto che siamo dello stesso paese, la Brianza ne è un esempio in questo senso. Ci sono molti motivi di simpatia o di sintonia, ma ci sono anche molti motivi di tensione. Che cosa vince questo? La fede. Ma la fede vince questo perché è un avvenimento di vita che continua. Perciò il primo modo per cambiare moralmente è chiedere che la fede ci cambi non cercare di cambiare noi. Questo avviene dopo, come conseguenza. Chiedere al Signore che ci cambi e che, dando una svolta nuova all’intelligenza e al cuore, ci faccia vivere come descriveva così bene Giussani: andavamo avanti tendando di vivere l’esperienza della vita alla luce di questo incontro, senza dimenticare questo incontro, anzi chiedendo a questo incontro la luce.

Si può permanere nell’origine o pensare di sapere già. Ci sono dunque due modi opposti di vivere il rapporto con ciò è accaduto, due atteggiamenti antitetici: il già saputo e la memoria. Il già saputo blocca, chiude, come è accaduto con i farisei. Non solo ha chiuso i farisei fra di loro, ma li ha chiusi verso Cristo. Sono stati quelli che lo hanno seguito per anni per coglierlo in castagna e poterlo condannare. Quindi la verifica, il test, per capire se sono nell’atteggiamento della memoria o del già saputo è se sono aperto all’imprevisto di Dio. Uno che vive la memoria è aperto alla vita che ogni giorno riserva novità, basta che si sia capaci di vederla.


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